Arti Performative Dialoghi

#CastellinAria2019. S-Cene con gli artisti al Vicolo #1 – Rueda Teatro

Redazione

di Andrea Zangari e Maria D’Ugo

 

Abbiamo deciso di incontrare le giovani compagnie della seconda edizione di CastellinAria – Festival di Teatro Pop, di cui “Scene Contemporanee” è mediapartner, intorno a un tavolo, a tu per tu, prima che vadano in scena la sera successiva nell’arena di Castello Cantelmo ad Alvito (Fr). Spesso infatti  i festival offrono eccezionali vetrine, avviando processi di maturazione dei rapporti fra critici, direzioni artistiche, attori, registi, etc… Ma altrettanto spesso bruciano repentinamente il tempo della condivisione, nel respiro che si affanna fra i molti saluti, le esigenze logistiche, gli eventi in programma. La singola messa in scena rischia così di diventare un momento sovraccarico di aspettative, dissipate poi, una volta giù dal palco, dall’eco di una festa che si è già spostata poco oltre.
Abbiamo cercato  di capire a che punto del loro cammino artistico questi giovani professionisti si sentano, e lo abbiamo fatto attraverso “Il Vicolo del critico“, format a cura di Scene Contemporanee condotto da Andrea Zangari e Maria D’Ugo, presso il ristorante “Il Vicolo” di Atina (Fr), che consiste nella somministrazione di una rosa di domande identiche per tutte le compagnie.
Ci è parso utile riappropriarci di questo momento altro, disteso, per parlare dei processi che avvengono prima dello spettacolo o della performance, senza però limitarci a ciò che specificamente riguarda il lavoro.

“Pezzi”. Foto di Matteo Ricci – CastellinAria 2019

Il primo incontro è con Rueda Teatro, compagnia nata nel 2016 formata da Laura Nardinocchi, regista e drammaturga, e le attrici Ilaria Giorgi, Claudia Guidi e Ilaria Fantozzi. Con lo spettacolo Pezzi – si vive per imparare a restare morti tanto tempo si sono aggiudicate il primo premio al Roma Fringe Festival 2019.

 

Cosa vi ha portato a Castellinaria, festival che parte dalla ricerca di un teatro Pop? Più nello specifico, cos’è per voi il “pop” e in che modo è presente nei vostri obiettivi e nel vostro approccio al teatro?

Pop è essenzialmente un teatro che parli allo spettatore, il che non significa certo l’appellarsi a dei modi “facili” o lo scendere a compromessi per coinvolgere. È quel teatro che apre a dei linguaggi e a una poetica per renderli accessibili anche a un pubblico di non addetti ai lavori: per l’appunto a un “popolo”, ad un pubblico “popolare”. E per noi l’obiettivo è calibrato rispetto al pubblico, è coinvolgerlo all’interno di una poetica teatrale, attraverso una situazione riconoscibile. Tutte le altre accezioni attorno al pop non ci piacciono particolarmente, vengono dopo e comunque rimandano a un’estetica, non a un senso proprio di quello che viene dal popolo e dalla tradizione popolare.

Anche rispetto a questa esigenza connaturata al genere, di arrivare e comunicare qualcosa, cos’è il vostro, di teatro?

Proprio pop. Almeno Pezzi, in quanto rimettiamo in campo questioni molto orizzontali come la famiglia e il lessico famigliare, che qui è un dialetto della provincia di Viterbo, il caprolatto. Ma il nostro è un teatro che si compone anche di molto altro, oltre al testo. C’è da dire che per noi la dimensione della relazione è la base di tutto. “Relazione” ci sembra sia la parola chiave del nostro teatro. Importante è anche creare un legame col pubblico che si sposti su vari livelli, sia più emotivo, meno legato alla testa e più alla pancia. Far riflettere su determinate dinamiche, è questo che ci interessa, assieme al dialogo costante c’è sempre voglia di trovare, ogni lavoro è un tipo di incontro nuovo e ogni incontro arricchisce quello spettacolo; importante è ricercare anche per scombinare e ricombinare delle cose date. “Ricerca”, insomma, il che poi porta alla possibilità di creare un teatro che sia davvero un’opera d’arte: in questo noi rifiutiamo la volgarità, cioè ogni abbassamento “furbetto” per intercettare al ribasso quanto più pubblico possibile. Nel teatro invece dobbiamo riuscire a parlare allo spettatore e a comunicargli che il frutto della ricerca è un’opera d’arte, che una volta riconosciuta e apprezzata appartiene a tutti. Ci piace pensare al teatro anche come un atto di rivolta, perché ci ritroviamo effettivamente a lottare con delle difficoltà che tendono a uccidere il lavoro teatrale, ma anche per l’idea della rivolta come sovversione della realtà. Si può raccontare una cosa e farla vedere in un modo diverso da come la conosciamo, portando quindi noi e il pubblico a un processo di elaborazione diverso. Si può dire in questo senso che il nostro teatro segua tre “R”: ricerca, relazione, rivolta.

Quali sono i vostri maestri e i riferimenti principali a cui vi affidate, o che vi hanno segnato di più?

César Brie, Emma Dante, Tadeusz Kantor fra i primi che ci vengono in mente… ma di stimoli ce ne sono davvero tanti, anche il teatro che viene dalla tradizione della Commedia dell’Arte, dell’Odin Teatret e tutte le suggestioni fisiche della biomeccanica, il teatro danza di Pina Bausch, il circo. Fra i riferimenti più importanti ci sono anche quelli che vengono dalla musica, che aiutano molto nel lavoro sul corpo e non solo, o persino dalla pittura: Munch, Karpoff, per esempio. Poi, ovviamente, si tratta anche di spunti che utilizziamo a livello singolo, più personale. Si può paragonare uno spettacolo a un quadro: nel quadro tu puoi riconoscere l’opera d’arte, lo vedi che è qualcosa che non puoi vedere per strada.  E ovviamente dal cinema: Bergman su tutti. Sono punti di riferimento che magari restano nascosti, ma girano dentro il lavoro. Ma forse il punto fisso più importante è il gruppo stesso: l’atto di osservare in sé ti rende un attore migliore in quanto stai lavorando per essere una persona migliore, in ascolto. L’osservazione della vita reale forse è l’ispirazione migliore. Anche perché quello che ci interessa è comunque parlare dell’umano e della vita.

Quale metodo di lavoro avete trovato nella vostra esperienza fino ad oggi?

Pur non essendo “metodo” una parola che amiamo, il nostro metodo è, come dicevamo, centrato sulla relazione con l’attore. Non solo, però, la relazione regista-attore, perché il teatro è relazione a tutto tondo: dell’attore con la scena, con la musica, con gli oggetti, con gli spettatori, con tutto. Lavoriamo partendo da un tema, da cui poi individuiamo dei sottotemi che però si articolano sulla scena attraverso la partitura gestuale in primis. Solo da lì, dalla scena, arriviamo al testo. Quindi possiamo parlare di scrittura scenica. E così il lavoro coinvolge ogni singolo attore: ciascuno ha la propria partitura di gesti e di parole, e questo dà un’enorme libertà. Ma ovviamente si rende necessario un lavoro molto lungo in sala prove. La preparazione di Pezzi, per esempio, è durata circa nove mesi. Ed è partita da un gioco sui gesti, insieme all’interesse per il caprolatto, dialetto di famiglia per qualcuna di noi. In generale crediamo nella creazione lenta e lunga. D’altro canto, la creazione è il momento più interessante. E per creazione intendiamo anche il tempo di trovare e di condividere dei materiali.

Si parla molto delle difficoltà a compaginare il processo creativo con le difficoltà economiche legate alla scarsa circuitazione, soprattutto per le giovani compagnie. Esiste per voi questo disagio? Come lo vivete?

L’esperienza delle prove per noi è sempre molto serena. Prima delle difficoltà, che pure ci sono, c’è la consapevolezza del privilegio di fare questo mestiere. Sicuramente la visibilità che il Fringe ha portato al nostro lavoro ci ha consentito un certo numero di repliche, il che ci dà una certa dose di ossigeno e visibilità, e del resto per noi il teatro è necessariamente l’orizzonte professionale. Fino ad ora la volontà di far girare ancora di più il nostro lavoro si è scontrata con una difficoltà nell’entrare in contatto con un circuito più ampio.  Però è anche vero che la ristrettezza di mezzi ci offre la possibilità di essere ancora più essenziali al livello della messinscena, il che finisce per essere una ricchezza. Comunque a partire dal biennio 2019-2020 lo spettacolo sarà coprodotto da Rueda Teatro, Teatro Florian Metateatro e Theatron 2.0.

Quale pensate debba essere il ruolo della critica teatrale rispetto al vostro lavoro, al processo creativo?

La critica dovrebbe facilitare l’incontro fra la compagnia e il pubblico, a cui va indicato che tipo di linguaggio si troverà davanti. Denunciare i difetti, ma soprattutto indicare le potenzialità, che sono la direzione in cui lavorare. Provando a mettere da parte il gusto personale: molte volte si leggono critiche che si limitano a dire, più o meno sottilmente, se lo spettacolo è piaciuto, o no, al critico. Questo in fondo non è interessante né per gli artisti né per il pubblico. Molte volte addirittura si percepisce che gli addetti vanno di spettacolo in spettacolo sviluppando una certa noia. Naturalmente il ruolo richiede di vedere molti lavori, ma ci vorrebbe un impegno che vada oltre la presenza alla singola serata. Un altro ruolo della critica dovrebbe essere creare una rete umana, non istituzionale, con le direzioni artistiche dei teatri, per diffondere e condividere a livello nazionale i prodotti che nascono in questa o quella regione, e che rischiano altrimenti di rimanere relegati ai rispettivi territori.

 

[Pezzi. Foto di Matteo Ricci, CastellinAria – Festival di Teatro Pop 2019]



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