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Elementare Femminile

Redazione

Sei anni fa Gianluca Montebuglio, con “è tutto bellissimo”, firmò il suo esordio discografico con la Octopus Records di Giuseppe Fontanella (24Grana), con la produzione di Lorenzo De Gennaro. Il disco fu accolto bene dalla critica e portò Gianluca in tour, condividendo il palco con Cesare Basile e Charalambides, e partecipando al Sofar Sound Napoli, tra le varie cose. Da due settimane c’è un suo nuovo singolo in circolazione, a cui si aggiunge il racconto che pubblichiamo oggi: si chiama elementare femminile, il racconto, e la canzone “oma”. Sono parole che parlano e cantano di tenerezza, meditazione, vita e vecchiaia.
Buona lettura e buon ascolto. Troverete  il link spotify della canzone alla fine.

 

Sai aspettare?
So bruciare.
Fino alle braci?
Fino alle braci.
È perfetto.

E insomma eccomi qui che abbraccio la gioia di oggi e il fallimento di ieri, e mentre lo faccio avanza l’alba di un giorno cuspide. È un limbo che provo a fare un anche un poco poco mio. E direi che si sta bene in un limbo così. A quest’ora il mondo tiene ancora i colori della notte ma le battaglie vere ormai sono alle spalle. Quindi pure stamattina mi siedo per meditare, cioè mi infilo in una pratica che arriva a me da non so quanti anni e anni e anni, e non mi scansa, né mi scanso io. Incrocio le gambe su un cuscino senza nessuna pretesa zen, un cuscino proprio brutto e vecchio e supersiste, che il mio cane da cucciolo ci si metteva sopra e allora apposta l’ho portato qui – il cuscino non il cane – dalla vecchia casa dov’è intanto rimasta l’altra vita, quell’altra vita là che poi è la stessa vita qua, ma insomma ci siamo capiti. Mi guardo lento intorno, attento a tutto quello che non accade. Fintanto che ho gli occhi aperti, sono quasi solo. Respiro e mi cerco l’aria pure dentro le mutande, che non ho più da ieri sera. Quando sto nudo e solo, allora sono nudo e basta.

Chiudo le palpebre per ascoltare qualcosa. È il momento soltanto delle narici e delle narici e delle narici, e infatti tutto, piano piano, si placa e finisco nel silenzio concreto di quando uno esiste senza aggettivi, non fosse che, come da un vecchio televisore scassato ma non abbastanza, mi arrivano le immagini e i suoni della colazione che farò, di questo quartiere dove i cani dettano legge e i padroni obbediscono, del 29 da prendere alle 8.43, dei miei genitori, del vagabondaggio urbano mentre ero un Marcovaldo in cerca di fessa, cioccolata calda e altri pericoli benedetti, dell’arroganza assai svogliata di Fabiana la barista. Fabia’-ma-che-c’hai?

Poi però, le narici, torno alle narici e bracco l’elefante senza spaventarlo. ‘Sto cucciolo logorroico. Le narici, mi diceva Ludovico, quando andavo da lui a prendere il più possibile, a raccattare, Se tutto manca torna a loro e vedi che non ti puoi sbagliare. I pensieri si disperdono, vado sempre più lontano, quindi vado sempre più vicino. Mi scompaio. O una cosa del genere. Sono quella goccia che scappa nel mare anche quando hai pisciato già al bagno del lido.

Poi, non so dopo quanto, mi viene in mente che insomma c’è questo senso di libertà, e che proviene da una disperazione remota, che quasi te la sei dimenticata – quasi! -, e somiglia a un topo bello che morto, questo senso di libertà, là sulla soglia più intima della vita nostra, un topo fatto fuori tutto per noi dall’animale che ci portiamo dentro, una disperazione insomma che o la custodisci come tra le zizze di una mamma o la lasci imputridire sull’uscio. Mi viene in mente questa cosa, e ritorno alla mente quando non ci voleva proprio. Sono nel pieno del vuoto quando arriva questa idea-qqua a cambiare i giochi. Allora resisto!, e va anche peggio. Che vuoi resistere se non ci sta altro che l’arresa davanti?, che poi si finisce nello sfracello, sfracello totale proprio eh, non a chiacchiere: è la famosa arte di misurarsi la palla che dobbiamo guinzagliare per non finire a capa sotto, avrebbe detto Lorenzone. Una scaltrezza che dobbiamo a noi stessi, ho capito poi io, ma-che-fatica-dio-santo.

Rientro nel respiro, comunque. E vado di nuovo, a lungo, fino agli occhi umidi e ormai aperti. Gli occhi definitivi di questa giornata. Uè, eccoli, so’ loro. Li apro ancora meglio, per il resto sto fermo come un cane da punta ma senza tensione per la preda. Non ci stanno prede e non le voglio. Non ci stanno prede e non le cerco. Improvviso uno sguardo allo specchio che mi ha regalato la vicina quando venne fuori, mentre le scale amplificavano le nostre piccole confessioni, che non ce ne stavano in casa. Inammmisibile-caro,-questa-cosa-è-ina-mmmi-sssi-bi-le, e me ne portò uno dalla cantina, e insomma mò di fronte c’ho quest’uomo qui nudo, smilzo, con qualche segno vago di un passato sportivo ancora addosso, addosso più per caso che altro. Questo corpo qua che mi accoglie senza tarantelle o aspettative. Sono di fronte a me e ci resto. La luce inizia a superare la finestra che separa la stanza dalla strada cieca in cui abito, in questo piano terra dove qualche volta si affaccia un gatto rossiccio senza padrone – e senza manco troppa salute, a dirla tutta – per un miao veloce o le voci sbilanciate verso l’allegria da tutto-questo-verde-così-a portata-di mano di chi sale e scende dal parco di Villa Ghigi. Le cose vivono senza affanno, ingenue. Piglio il quaderno e scrivo le parole che tengo da dirmi per davvero. Sono poche, necessarie e non previste. Ed è giusto così. Le rileggo e mi ritrovo tra quelle montagne della Carnia dove il grigio della roccia e il verde dei boschi hanno firmato una pace quasi eterna, e che ti risucchia quando ci sei dentro. Il resto, è energia sismica che pare si faccia i fatti suoi, ma-poi-vai-a-vedere, e un cielo di coraggio. Là, in un palazzone un po’ sovietico con tante finestre a oblò e il cemento rigato dagli strati, c’era una signora che mi capitava di incontrare un paio di anni fa. Senza stare qua a dirci perché, ma insomma mi capitava.

Sono in quell’ospizio con un rimbalzo nella testa, un sasso che saltella fino alle infermiere pronte a giurare che è tutto ok, con questo loro accento dove ogni ogni sillaba detta pare sincera. Credi a tutte le parole che ti dicono, con quell’accento là. Ci sta una banda di anziani nella mensa a galleggiare, persi nelle pastine al neon. Qualcuno appoggia una scoreggia senza offesa o storie. Deve essere che con la vecchiaia tutto è normale. Una volta succede che resto solo con lei, con questa signora di novantaepassanni, ma nella sua camera singola, mica nella mensa. Tutt’eddue nelle nostre lingue diverse, senza nessuna traduzione in quel momento, e allora ci guardiamo negli occhi – che altrimenti come si fa? -, ci guardiamo a lungo e poi sbilanciamo le mani. Lei le tiene bianche e solcate dalle vene ingrigite, e le mie invece sono quelle che conosco già, e gli occhi fissi di tutt’eddue, fissi e vivi di quando non c’è sfida o paura o seduzione. È una cosa senza passato né promesse. È tutta tenerezza, senza il cacamento di cazzo delle biografie. Cala il sipario su questa faccenda e torno tutto intero, seduto sul cuscino che il mio cane da cucciolo usava per dormirci come uno stronzo, mentre a me toccava lavorare, impalato a una sedia e poi il computer e le telefonate e tutto il resto appresso, mentre la guerra era arrivata anche a casa nostra, silenziosa e rapida, che non me ne ero accorto però lo nasavo da un po’ questo assedio di quattro o cinque demoni scappati di casa, che non avevamo mai chiamato per nome e allora quelli si erano risentiti e si erano preparati per l’assalto. Che nottate. Pure la nostalgia mi è passata. E vorrei vedere con tutto il sangue che c’ho buttato.

È bello guardarsi negli occhi tutto il tempo senza sfida o timore o seduzione, penso. Certi movimenti che succedono dentro e che ti prendono e poi ti spingono, lo fanno lì, in quel cortile al sole dove non succede niente mentre succede quello che deve. Lo fanno lì o non lo fanno proprio. Niente, nessuno e nessuna a duello, da tirare dalla nostra parte, niente equivoci, niente da confondere. È una pausa che ti prendi dall’ambiguità adulta, è tipo il contrario dell’ombra, un sollievo che si fa sempre più lungo e che lo impari anche su un cuscino, e poi cominci a portarlo in giro nella tasca come una gomma da masticare, e allora se ti chiedono Scusa hai una gomma?, tu ce l’hai, la gomma, e la offri e tutto sommato ti fai simpatia, una simpatia a pelle. E spesso sei pure abbastanza felice. Mi guardo a destra. Lei dorme ancora, mentre dentro ho un bambino timido che ruggisce, che la vuole baciare. Lo faccio sui capelli e ricapito su ieri sera, a quando ha pronunciato il mio nome davanti gli altri e cerco, in quegli istanti, tracce di me nella sua voce, se vengo fuori, insomma, e in che modo. Se sono un ricordo o una presenza. Per un attimo mi perdo dentro a un odore strano, irreale, senza logica eppure così amaro, di nostalgia imminente. Cerco di intravedere qualcosa di buono per rasserenarmi. Cerco indizi che a finale non servono, che non servono mai. Desiderio del desiderio altrui?, può darsi non lo so. Comunque tanto è. Sorrido per chiuderla là. Stanotte sono stato nudo e c’era lei, ma c’ero anche solo io quando sono nudo da solo. Continua a respirare senza sosta né fretta. Deve essere brava pure in questa faccenda, ‘sta creatura. Poi mi alzo, tiro su quel preservativo ancora a terra. Mi metto qualcosa addosso, cambio stanza, zitto zitto. Caffè, sigaretta, doccia. Tenerezza.

 



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