Arti Performative Focus

“Petra” di Lamantia/Beercock, o del teatro come rito di possessione

Giovanna Villella

Al TIP Teatro di Lamezia Terme, per gli extra di RiCrii 19¾, rassegna diretta da Dario Natale, è andato in scena Petra di Lamantia/Beercock, con il contributo artistico di Noa Di Venti, Gaia Cappa, Garage Arts Platform, una produzione Babel di Palermo.

Mauro Lamantia e Sergio Beercock, belli come due antichi Greci, con gonne lunghe tra il gitano e il vedovile, intrattengono brevemente il pubblico prima dell’inizio della performance ispirata al romanzo di Nino Savarese I fatti di Petra (1937) in cui lo scrittore, nato ad Enna nel 1882, racconta la storia della città siciliana partendo dalla sua fondazione mitologica da parte di Ercole.

Sulle tracce di questo testo denso e arcaico, la scrittura drammaturgica segue la logica di un “montaggio” tutto interiore in cui si individuano tre vertici: un desiderio, rappresentato dal Malucumminàtu, che è costantemente minato da un «Lei», forza maschile destruens, e dalla «Signora Ida», forza femminile giudicante. Tre vertici in cui le sequenze sceniche si generano senza soluzione di continuità, aperte in una vertigine di vuoto mentre la lingua, tra percezioni antropologiche e letterarie, mantiene le petrose asperità e le primitive sonorità della città immaginaria che dà il titolo al racconto e da Petra/Enna, la metafora si slarga all’intera Trinacria, terra di mito e di poesia.

Dalla pagina alla scena, dunque, alla ricerca della propria identità in un luogo che non è solo geografia spaziale, delimitata, circoscritta ma è anche e, soprattutto, “luogo dell’anima”. E così dopo essere stati Altrove, sotto un altro cielo, si ritorna, come Ulisse a Itaca, alla ricerca di un senso o di un segno in grado di ridestare memorie genetiche.

Il duo Lamantia/Beercock tenta di appropriarsi di una mitologia moderna, cercando le interne contraddizioni che mescolano pianto e riso, ritualità e poesia e risalendo alle origini della rappresentazione secondo l’idea paleolitica del teatro come rito di possessione.

«Scuru» è lo spazio scenico, e da questa oscurità si leva una musica che pare sgorgare dalle viscere della terra per vestirsi di aurora, assumendo la sacralità di una preghiera. Lamantia, flessuoso come un giunco o contorto come un antico ulivo, affida alla sua prodigiosa gestualità il suo entrare e uscire dai personaggi o, forse, sarebbe più appropriato parlare di spiriti che lo “abitano”, con quella sua maniera corporale, deliberatamente fisica, di comportarsi in scena e di recitare.

La figura femminile è altera, subdola, impietosa, salmodiante, zitella e bigotta. Perfetta espressione di quella vox populi che monta in sottofondo, mentre la calunnia spira come venticello. U malucummìnato, lo storpio, incarnazione del lato oscuro che alberga in ogni essere umano, è un personaggio atavico, un demone tragico che si misura con le proprie paure. La sua attesa del miracolo, permeata di fede ingenua e di sterili speranze «Cantu, allumu lumini, pregu a destra e pregu a sinistra e sempre malucumminàto ristu», trasmuta in ansia di divino tanto da ambire a una «Santa moderna personalizzata», assemblata secondo i suoi desideri, con l’abito ceruleo della Madonna della Visitazione, il bastone di S. Giuseppe, gli occhi di S. Lucia, le «minne» di S. Agata, il cappello di S. Girolamo, simbolo di saggezza, e capace di volare. Certo, il folklore meridionale è ricco di santi a cui si chiedono miracoli, con in quali si stabiliscono rapporti di tipo familiare e che si presentano come creature ibride assolvendo compiti che in altri luoghi e in analoghe situazioni si attribuiscono a maghi, fate, streghe… Così, l’incontro tra i due acquista il sapore di una fiaba disneyana con la Santa che arriva volando, bussa alla finestra e dopo averlo salutato con uno squillante «Gioia mia…» lo sottopone alla danza del miracolo per prepararlo allo stracanciamento.

Lo «scecco», l’asino – simbolizzato da una mascella al pari di un reperto fossile o di una reliquia – a cui viene attribuito il potere miracoloso di aver salvato il paese dal colera, può invece essere letto come una proiezione mitopoietica del Santo che ha perso i propri poteri o come la versione “buona” del drago – figura mitologica presente sia nell’orizzonte folklorico sia nell’universo magico-religioso tradizionale – che partecipa del destino di rinascita e ricreazione di quel piccolo mondo. Il quadrupede crea un legame sotterraneo con l’episodio biblico in cui Sansone uccide i Filistei proprio con una mascella d’asino, laddove Sansone stabilisce una fratellanza con Ercole, il “quasi dio” che, nella scena finale uccide i Giganti e, con la posa della prima pietra, dà origine alla città siciliana.

Il paesaggio sonoro di Beercock, alla console, crea atmosfere intrise di pietà popolare riempiendo lo spazio minuto del palcoscenico di rumori, sound elettronici, versi animali, musiche ancestrali e di una moltitudine vociante, presenze invisibili che partecipano agli accadimenti mentre la luce, in sapiente dosaggio, crea chiaroscuri di pittorica suggestione. Una performance di particolare fascinazione con punte di simbolismo nero, intagliata come un antico cammeo.

[Immagine di copertina: foto di Giovanna Villella]

 



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