Arti Performative Focus

“Lo Psicopompo” e “Eins Zwei Drei”: due catabasi al Napoli Teatro Festival Italia

Andrea Zangari

«Non si può soffrire ed essere simpatici». Quante volte ci siamo trovati a condividere, magari nel silenzio di qualche dolore, un simile pensiero. Un assunto di atroce ragionevolezza che condensa la poetica de Lo Psicopompo andato in scena il 15 giugno al Napoli Teatro Festival Italia, ancora fresco di debutto (a Primavera dei Teatri). L’ultima fatica di Scena Verticale, scritto, diretto e interpretato da Dario De Luca, inscena l’incontro postremo fra una madre e un figlio: lei, interpretata da Milvia Marigliano, che ha attraversato un abbandono coniugale e la morte del primogenito molti anni prima; lui, un infermiere che per scelta aiuta clandestinamente i pazienti in condizioni d’irreversibile sofferenza a finire la propria vita. La madre va dal figlio, per essere accompagnata verso la morte da colui che lei stessa ha messo al mondo: un elissi potente, un rovesciamento che proprio in virtù della sua siderale evocatività pone la drammaturgia e le interpretazioni nel costante pericolo di cadere nel patetismo, o, dal lato opposto, nell’understatement energetico-gestuale. Potenzialità e rischio che lo stesso spazio del Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale a Napoli ribadisce, con le sue dimensioni fuori-scala, la sua profondità perturbante. La parola amplificata si diluisce, echeggiando ancora un po’ indefinitamente nelle generose pause che i due accordano a molte battute, silenzi a volte necessari. Un aereo che romba sul cielo di Napoli, la voce dei gabbiani, entrano nello spettacolo, e con sorprendente efficacia De Luca-Marigliano ne imprigionano la voce trasognata nel tappeto sonoro dello spettacolo. Sono proprio questi segnali imprevedibili, catturati e resi astratti, che impreziosiscono la fruizione, ma rivelano anche la fragilità della pièce, una fragilità intima che è forse l’oggetto stesso del discorso intentato, e che è dunque parte del gioco.

Milvia Marigliano e Dario De Luca

Come noto lo psicopompo è, nella mitologia greca, il traghettatore delle anime dei morti verso la loro dimora ultima: figura ricorrente, sotto altri nomi e con vari attributi, in ogni religione, mitologia, tradizione. Figura antropologica, dunque, che abita una sorta di “mondo di mezzo”, attraverso il quale conduce all’estremo opposto, antitetico alla vita, le anime già morte, costrette in un limbo che si dà come luogo da attraversare in fretta. Proprio sull’entità di questo spazio mediano pare interrogarsi Dario De Luca, questo spazio impreciso che non è più vita, né ancora è morte. Spazio che molto spesso la scienza confina nel tentativo di tassonomizzare un dolore fisico riconosciutamente insopportabile. Anche se questo spazio di enorme interesse medico, ma anche filosofico e politico, va includendo vieppiù il patimento psichico, ovvero la depressione, resta la domanda sempre elusa dalla visione centralistica dell’apparato scientifico-burocratico: chi decide quale sia il dolore che fa meritare al paziente (se non altro in senso etimologico: colui che patisce) una morte celere e dignitosa? La madre de Lo Psicopompo afferma di non essere in alcun modo malata, ma di aver semplicemente esaurito ogni volontà di vita. «Perché non puoi accettare che si possa desiderare la fine senza essere per forza moribondi o torturati dal dolore? […]  Questa…cosa che fai tu a pagamento, dovrebbe essere una cosa che so fare anch’io, che sappiamo fare tutti. Dovrebbe essere di pubblico dominio». La domanda ha però mira ben più profonda di un dibattito che, proprio in quanto tale, resterebbe relegato alla superficiale gazzarra dell’opinionismo: nell’hic et nunc della messa in scena, inglobando (ovvero facendosi globo) il cortile di Palazzo Reale e Napoli stessa, tenta una rappresentazione della rappresentazione stessa, ovvero dei margini della rappresentabilità, mettendo in parole e gesti un discorso sulla fine. «Quanto impiega l’ultima nota di un brano musicale a spegnersi per sempre?»

Il progetto ambiziosissimo, vasto come la sorte culturale di un Occidente vocato al tramonto sin dal nome, implica un tono interpretativo laconico, secondo, appunto, un’estetica della fragilità che estrinseca una serie di segnali sempre sul punto di svanire. Gioca in tal senso lo schermo diafano che si muove sulla scena, un filtro semitrasparente che rende percepibile l’intoccabilità di ciò che è inscenato, descrivendo una distanza che non rimanda altro che a se stessa. Un filtro che tuttavia denuncia una certa perdita di efficacia rispetto alla configurazione della prima mise-en-scene presso le scatole abitabili di BoCS Art a Cosenza, dove il pubblico era assiepato oltre una finestra, ascoltando le voci degli attori in cuffia.  La bellezza ed il limite de Lo Psicopompo si danno come uno: seguendo la fascinazione per l’aure mitologica dei ruoli, attraverso una drammaturgia che incastona due soliloqui intensamente letterari, stemperando il contributo corporeo nel rigore della parola, dispiegando una teoria di gesti così delicati da lambire l’atonia.

Potremmo tornare sulla citazione iniziale per introdurre un altro spettacolo visto al Napoli Teatro Festival Italia: Eins Zwei Drei, l’ultimo lavoro dell’artista elvetico Martin Zimmerman (già al NTFI nel 2010 e 2015) andato in scena in prima nazionale il 15 e il 16 giugno al Teatro Mercadante. E tornandoci, la volgiamo in domanda: si può soffrire ed essere simpatici? Sia chiaro: non seguirà alcun tentativo di scorgere parentele tematiche, né tantomeno stilistiche. I linguaggi scenici dei due lavori sono quanto di più dissimile. Dalla ricerca drammaturgica che denuncia totale fiducia nella parola, anzi nella parola come chiave per accedere all’aldilà del dicibile e del rappresentabile (si potrebbe dire: la parola psicopompica), al tripudio dell’artiste en saltimbanque, al totale testo-eccentrismo di uno spettacolo che ibrida tanztheater, arti visive e circo, secondo la formazione del coreografo e performer svizzero. D’altro canto, è il clown quella figura che per eccellenza stabilisce, proprio nel suo patire, una sim-patia performativa col pubblico.

“Eins Zwei Drei”. Foto di Nelly Rodriguez

È infatti un clown quel personaggio vestito di bianco, incipriato, col ventre protuberante (Tarek Halaby), che prende la parola da un predellino, salutando il pubblico come ad un’inaugurazione: ci augura il benvenuto nel suo museo, ma dopo poche battute il cerimoniale vira in delirio, con le parole che implodono nel corpo esagitato come un ingranaggio in tilt. È clown anche il suo servo-aiutante (Dimitri Jourde), una goffa creatura irsuta con orecchie pelose e spropositate, simili ad un caschetto animalesco. Tutto annerito come uno spazzacamino, incurvato sotto il peso di un’invisibile subalternità sociale, scivola ad ogni passo inventando incessanti e spassosi equilibrismi. La dialettica bianco-nero, autorità-sottomissione, lega i due nel cliché clownesco del bianco e dell’augusto. Più irregolare rispetto a questo schema duale tradizionale, un terzo danzatore (Romeu Runa) erompe letteralmente in scena, sfondando l’assito del palcoscenico. Una sorta di zombie folleggiante e seminudo, la cui presenza inquietante suscita negli altri due pulsioni d’ammirazioni, amore, gelosia, violenza. Il suo corpo spastico, facile a flessioni estreme, assume su di sé la contrastata aura dell’opera da museo: sarà lui l’oggetto da venerare, da incorniciare e da vendere all’asta.

Come ha affermato lo stesso Zimmerman, il museo è infatti uno spazio sottoposto a «des conventions strictes et des codes sociétaux précis». Un crocevia fra la libera espressività della creazione artistica e il rigore normativo imposto da una classe dominante, acquirente e mecenatistica. Autorità, sottomissione, libertà: Eins Zwei Drei, un-due-tre, è l’equilibrio fra queste tensioni, è il ritmo di una marcetta, una danza in tre tempi, o l’enumerazione dei tre bizzarri personaggi. A cui se ne aggiunge un quarto, in scena al pianoforte, (tra)vestito in borghese (Colin Vallon, esecutore e autore dell’ideazione sonora). Il soundtrack è un flusso continuo di suoni campionati in diretta, un delirio di corde pizzicate o carezzate con l’archetto: mai un mero commento alla coreografia, ma vera narrazione sonora che potenzia, a volte seguendo a volte dirigendo, la psicologia dei movimenti, intonandosi anche al gusto da Cabaret Voltaire dell’impianto scenografico. Lo stesso pianoforte ruota a momenti su una piattaforma circolare, uno dei molti caroselli che rende l’intera scenografia un corpo danzante.

In virtù di questo perfetto ingranamento sinestetico fra scenografia-coreografia-musica, Eins Zwei Drei trascina il pubblico in una modalità di fruizione da concerto rock. Riesce a far alzare in piedi tutto l’uditorio su un crescendo musicale (eccezionali anche le doti canore dei performer) che è un falso finale, un’apostrofe diretta al pubblico nella finzione di un congedo: una volta in piedi, restiamo tutti appesi alla nostra gravità, trascinati nel prosieguo dello spettacolo ma in una condizione destabilizzante, discosta da quella confortevole dello spettatore impoltronato. Così rimane impresso nella memoria fisica del pubblico l’interrogativo sulla condizione dello stare a teatro, specchio di quello, messo in scena, sulla condizione dell’artista. Poiché, citando Starobinski, il clown è l’immagine iperbolica «che agli artisti piacque dare di se stessi e della condizione dell’arte» (J. Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco (1970-1983), Torino 1984). Questa riflessione immette ad un finale che fa coerentemente convergere la sovrabbondanza segnica dello spettacolo in un fotogramma spoglio, muto, in penombra: un’amara intronizzazione del corpo clownesco, e dunque del corpo dell’attore, e dunque del corpo dell’uomo, sul podietto che ora ricorda una deposizione, o una pietà. Infine, Eins Zwei Drei è una discesa rabelaisiana, farcita di humor a tratti grottesco a tratti fiabesco, nel mondo dei morti, morti che saremo e che dunque già un po’ siamo. Infine, anche Martin Zimmerman è uno psicopompo.

 


 

«You can’t suffer and be nice». How many times have we caught ourselves having such a thought in a moment of personal pain? An atrociously reasonable assumption summarizing the poetic of Lo Psicopompo, staged at the Napoli Teatro Festival Italia, two weeks after its national premiere at Primavera dei Teatri. The latest work by Scena Verticale, written, directed and interpreted by Dario De Luca stages the remote meeting between a mother and her son: she, played by Milvia Marigliano, who went through a marital desertion and the death of her firstborn child many years before; he, a nurse who clandestinely helps patients in irreversible pain condition to end their lives. The mother goes to the son, to be accompanied towards death by the one she herself brought into the world: a powerful elixis, a reversal that, by virtue of her sidereal evocativity, puts dramaturgy and playings in the constant danger of falling into patheticism or, on the other side, in an energetic-gestural understatement. The space of the courtyard of Palazzo Reale strengthens this risk (which is at the same time a poetic potential), due to its out-of-scale dimensions, its perturbing depth: the amplified word is diluted and lost, echoing indefinitely in the generous pauses attached to many lines. Silences which sometimes are necessary: ​​an airplane roaring over the sky of Naples, or the voice of seagulls, enter the show, and with surprising effectiveness De Luca and Marigliano imprison their dreamy voice in the acoustic background of the play. These unpredictable signals, captured and abstracted, embellish fruition, but also reveal the fragility of the piece. An intimate fragility that is perhaps the very object of the attempted discourse, and that is therefore part of the game.

The psychopomp is, in Greek mythology, the well-known ferryman of the dead souls, leading them towards their last abode: a recurring figure, with various names and attributes, in every religion, mythology, tradition. Therefore, an anthropological figure that inhabits a sort of “middle world”, through which it leads the already dead souls to the extreme opposite, antithetical to life, crossing a limbo that is given as a place to leave quickly. It is precisely on the extent of this median space that De Luca seems to question himself, this imprecise space that is no longer life, nor it is death yet. A space that science confines in an attempt to taxonomize that pain recognized as unbearable. Even if this space of outstanding medical interest, but also philosophical and political, is including psychic suffering by now, i.e. depression, the question always eluded by the centralist vision of the scientific-bureaucratic apparatus remains: who decides what is the pain that deserves to the patient (in an etymological sense: the one who suffers) a swift and dignified death? The mother of Lo Psicopompo ensure that she is not sick in any way, but to have simply exhausted every wish for life. «Why can’t you accept that you can desire the end without necessarily being dying or tortured by pain? […] This … this you do for payment, it should be something I know how to do, that we all know how to do. It should be in the public domain ». The question, however, aims far deeper than a debate which, precisely as such, would remain relegated to the superficial sluggishness of opinions: in the staging hic et nunc, encompassing the courtyard of Palazzo Reale and Naples itself, Lo Psicopompo attempts a representation of the representation itself, that is of the margins of representability, putting into words and gestures a discourse about the end. «How long does it take the last note of a song to go out forever?»

The very ambitious project, as vast as the cultural fate of a West suited to the sunset since its name, implies a laconic interpretative tone, according, in fact, to an aesthetic of fragility that expresses a series of signals constantly on the border of disappearance. In this sense, the diaphanous screen that moves on the scene, a semi-transparent filter that makes the untouchability of what is staged perceptible, describes a distance that refers only to itself. A filter that nevertheless reveals a certain loss of effectiveness with respect to the configuration of the first mise en scene in the habitable boxes of BoCS Art in Cosenza, where the public was crowded beyond a window, listening to the voices of the actors through headphones. The beauty and the limit of Lo Psicopompo are given as one: following the fascination for the mythological aura of the roles, through a dramaturgy that embodies two intensely literary soliloquies, it dissolves the bodily contribution in the rigor of the word, unfolding a set of such delicate gestures to touch a certain atony.

We shall go back to the initial quote in order to introduce another play seen at the Napoli Teatro Festival: Eins Zwei Drei, the latest work by the Swiss artist Martin Zimmerman (already at the NTFI in 2010 and 2015) on stage at the Teatro Mercadante. Coming back, we were saying, we would like to turn it into a question: can we suffer and be nice? Let us be clear: no attempt will be made to asses any thematic or even stylistic relationships. The scenic languages ​​of the two works are the most dissimilar. From the dramaturgical research totally trusting in the word, even in the word as the key to access the afterlife (one could say: the psychopompic word), to the triumph of the en saltimbanque artist, to the total text-eccentricity of a show that hybrids tanztheatre, visual arts and circus, according to the training of the Swiss choreographer and performer. Indeed, the clown is par excellance the figure establishing, just in his suffering, a performative sympathy with the public.

It is actually a clown, the character dressed in white, powdered, with a bulging belly (Tarek Halaby), who takes the floor from a step, greeting the public like for a premiere: he welcomes us in his museum, but after a few words the ceremonial turns into delirium, with the words imploding inside the body, agitated like a tilted gear. His servant-helper (Dimitri Jourde) is also a clown, a clumsy shaggy creature with hairy and disproportionate ears. All blackened like a chimney sweep, curved under the weight of an invisible social subordination, he slips at every step inventing incessant and amusing balancing acts. The black-white, authority-submission dialectic links the two in the clownish cliché of the White and the August. More irregular than this traditional dual scheme, a third dancer (Romeu Runa) literally erupts onto the scene, breaking through the stage planking. A sort of crazy and half-naked zombie, whose disturbing presence arouses in the other two impulses of admiration, love, jealousy, violence. His spastic body, easy to extreme flexions, takes on the contrasted aura of the work of art: he is the object to venerate, to frame and sell at auction in this museum.

As Zimmerman himself stated, the museum is a space subjected to «des conventions strictes et des codes sociétaux précis». A crossroads between the free expression of artistic creation and the regulatory rigor imposed by a ruling class, buyer and patronage. Authority, submission, freedom: Eins zwei drei, one-two-three, is the balance between these tensions, is the rhythm of a march, a dance in three times, or the enumeration of the three bizarre characters. To which a fourth one is added, on stage at the piano, dressed in “civilian” clothes (Colin Vallon, performer and author of the sound concept). The soundtrack is a continuous flow of live sampled sounds, a delirium of strings plucked or caressed with the bow: not a mere commentary on the choreography, but a true narrative that enhances, following or directing, the psychology of movements. Also, the soundtrack matches the Cabaret Voltaire taste of the scenography. The piano itself rotates at times on a circular platform, one of the many carousels that makes the whole scene a dancing body.

By virtue of this perfect synesthetic link between scenography, choreography and music, Eins zwei drei draws the audience into a rock concert enjoyment mode. He succeeds in making the whole audience stand up on a musical crescendo (also the singing qualities of the dancers must be mentioned) which is a false final, an apostrophe directed to the public in the fiction of a farewell: once standing, we all hang on our gravity, dragged along in the continuation of the show but in a destabilizing condition, deviating from the comfortable one of the dazed spectator. Thus, the question about the condition of being in a theatre, a mirror (though a distorting one) of the condition of the artist on the stage, remains imprinted in the physical memory of the public. Since, quoting Starobinski, the clown is the hyperbolic image «that artists liked to give of themselves and the condition of art». This reflection leads to a final that coherently converges the overabundance of the show’s signs into a bare, silent, half-light frame: a bitter enthronement of the clownish body, and therefore of the actor’s body, and therefore of the man’s body, on the pedestal that here resembles a deposition, or a pity. Finally, Eins Zwei Drei is a Rabelaisian descent, stuffed with humor, at times grotesque, at times fairytale-like, in the world of the deads, deads that we will be and that therefore we are already a bit. Eventually, Martin Zimmerman is a psychopomp too.

 



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