Arti Performative Focus

Il tempo di una storia. Ca’ Luogo d’Arte e il mondo infantile

Renata Savo

Un breve reportage su uno degli incontri previsti dal laboratorio teatrale per bambini condotto a Chiusi per il Festival Orizzonti. Finalizzata alla composizione collettiva di un racconto, nonché al recupero di materiali per uno spettacolo, l’esperienza si è rivelata una vera e propria incursione nel mondo infantile

Ho sempre sottovalutato la fantasia dei bambini, la loro leggendaria capacità inventiva. Sebbene paradossalmente mi sia capitato spesso di incrociare lo studio di correnti di pensiero o artistiche che traevano ispirazione dalla purezza infantile e dalla tenera ingenuità tipica di chi non ha ancora acquisito esperienza del mondo, non mi sono mai posta troppe domande sulla loro percezione del reale e, di conseguenza, sul senso profondo di certe estetiche che hanno agitato soprattutto l’arte del primo Novecento (basti guardare al gruppo del Der Blaue Reiter, così come al primitivismo di Gauguin o all’uso antinaturalistico del colore per i fauves).

Essendo la più giovane in famiglia non sono cresciuta a contatto con bambini, se non i miei coetanei quando ero io stessa a essere bambina (ma si può ben immaginare quanto tale esperienza, vissuta solo dall’interno, non faccia testo). Ergo, non mi sono mai soffermata attentamente ad ascoltare i loro dialoghi, né avuto modo di riflettere abbastanza sui loro modi di reagire a situazioni, eventi, racconti, miti.

Con la speranza di apprendere qualcosa su un universo a me perfettamente ignoto, non mi tiro indietro al Festival Orizzonti d’Arte di Chiusi, e accetto l’invito a seguire da spettatrice uno degli incontri del laboratorio per bambini “Il tempo di una storia” curato da Barbara Romito dell’associazione culturale Ca’ Luogo d’Arte, realtà proveniente da Gattatico (in provincia di Reggio Emilia) che si occupa di far dialogare il teatro per ragazzi con altri saperi non esclusivamente teatrali. Qui, ad esempio, Barbara mi racconta che l’idea che ha ispirato il laboratorio è nata a partire dalla loro personale vicinanza ai bambini, essendo anche madri, nonché dal suo interesse per la medicina cinese e il taoismo, dottrina di stampo – diremmo – “empirista”, perché basandosi sulle sensazioni, diversamente dalla cultura occidentale (influenzata dalla psicanalisi), riconosce nella pancia e non nel cervello la sede delle emozioni e dei sentimenti.

Finalizzato al recupero di materiale per uno spettacolo che debutterà a Parma, dal titolo Piccola anatomia infantile, il laboratorio si è svolto nel corso di quattro appuntamenti, durante i quali Barbara, Marina Allegri (drammaturga) e un’attrice hanno attuato un percorso di ricerca teatrale sul modo di creare storie nell’età infantile. Barbara mi spiega che il laboratorio ha un carattere sperimentale, e che lavorare con i bambini, la cui maniera di esprimersi è così spontanea e genuina, le sta permettendo di scoprire cose molto interessanti che comprovano la sua teoria di partenza circa una maggiore aderenza al taoismo nel modo di esprimere sensazioni, piuttosto che alla fenomenologia occidentale: «Secondo i bambini noi abbiamo tre cervelli: pancia, cuore, cervello».

Il giorno precedente il mio arrivo a Chiusi il laboratorio si è focalizzato sulla verifica della consapevolezza delle sensazioni corporee descritte dai più piccoli, i quali, appunto, non hanno una conoscenza lessicale e scientifica del corpo umano e per questo l’esperimento pare sia stato ancora più interessante. Barbara, quindi, ha elaborato per il gruppo eterogeneo di bambini un gioco che ha definito “Dentro di me”: è stato chiesto a ogni elemento di immaginare un orco nel proprio corpo e tentare di descrivere la sensazione fisica; poi è stata disegnata una sagoma a terra dentro la quale bisognava indicare la parte del corpo in cui avrebbe fatto piacere a ognuno stare (gioco del “Mi piace stare qui perché…”).

Le risposte? Le più svariate: ciascun bambino, infatti, collegava un’azione che reputava piacevole compiere (come “correre”) con una parte del corpo (“piede”), dimostrando, quindi, di lavorare efficacemente attraverso la sintesi di pensiero e azione, immagine e movimento. «L’azione di collegare i sentimenti, le emozioni, così come il cervello, al cuore: non si tratta solo di immagini fantasiose, ma veri e propri reali modi di sentire le emozioni e il corpo, in un modo che rende indistinguibili le due sfere, razionale e irrazionale, fisica e mentale».

La pratica dell’isolamento delle parti del corpo, proiettato a terra nei contorni essenziali di una sagoma, e la stessa rappresentazione del corpo come spazio ideale in cui muoversi o sostare, ha aiutato i bambini a esprimere paure, interessi, in quel particolare modo che li contraddistingue, proprio dell’essere socialmente privi di condizionamenti, sovrastrutture, credenze. Non a caso, la metafora della “credenza”, nel duplice significato delle parole omografe della lingua italiana, come contenitore delle conserve e come fede, ha assunto per la compagnia un’importanza cardinale nell’elaborazione dello spettacolo che andrà in scena prossimamente a Parma, e che verterà su un dialogo tra due donne profondamente affette da condizionamenti ideologici. L’indagine di Ca’ Luogo d’Arte, quindi, è stata mirata indirettamente, in quest’occasione, non soltanto all’esplorazione del comportamento infantile, ma anche – sul fronte opposto – a scoprire l’incidenza delle sovrastrutture nell’espressione del sé.

E piccoli condizionamenti, in fondo, sono emersi anche nell’elaborazione delle storie dei bambini, ai quali è stato somministrato una sorta di canovaccio, di «recinto senza argini», mi suggerisce Marina Allegri, che si occupa della parte drammaturgica e che assiste con me da lontano alle reazioni dei piccoli partecipanti, spinti a inventare dettagli e moventi della storia narrata dall’attrice, che assolve verso di loro una sorta di funzione “maieutica”. I loro condizionamenti, però, sembrano piuttosto frutto dei miti raccontati nelle favole di cui si sono nutriti fino a quel momento; così, attraverso gli stimoli dell’attrice, viene fuori, per esempio, che «Il drago è buono, ma l’orco è cattivo!», oppure, che il pane si è abbrustolito «perché il drago c’è passato sopra!» e le sue zampe «sono come le nostre mani», oppure ancora, che «il respiro è femmina».

Dopo un’ora e mezza i bambini appaiono un po’ stanchi, ma chi non lo sarebbe dopo aver provato a creare una scrittura collettiva così complessa – seppure decisamente alla loro portata – dove «veniva chiesto loro di trasformare l’energia di un drago in un’arena per sconfiggere un orco»?

Sopraggiunge, allora, il momento di raccontare, libro alla mano, la storia di questo drago buono, Gaspare, e senza alcun richiamo se non quello della stessa storia, «che chiama “Silenzio!”» – direbbe Gianni Rodari – i bambini si avvicinano sistemandosi spontaneamente entro l’area del cerchio segnato a terra. Un momento magico, in cui l’ascolto non viene forzato, l’attenzione è totale. Marina mi fa notare come ciò sia avvenuto perché le storie aiutano i bambini a sentirsi protetti e rassicurati, per cui non è stato neppure necessario richiamarli all’ascolto.

Alla fine di tutto, le donne di Ca’ Luogo d’Arte non possono che dichiararsi soddisfatte dei risultati ottenuti. A loro sicuramente vanno i complimenti per il lavoro che stanno portando avanti e l’augurio per il prodotto finale, ma senz’altro il merito va anche ai piccoli drammaturghi – le cui età oscillavano tra i 4 e i 10 anni – che hanno dimostrato doti eccezionali di comprensione ed elaborazione che, a causa della mia scarsa dimestichezza, mai avrei immaginato in creature di così giovane età.

Oltre al laboratorio, Ca’ Luogo d’Arte ha portato in scena al Festival Orizzonti anche due spettacoli, L’inevitabile sfida di Don Chisciotte e Sancho Panza Il gatto con gli stivali. O della povertà che si riscatta; quest’ultimo – ispirato alla fiaba di Perrault – «alle teste di legno nella baracca classica» vede accostarsi «una figura discreta di attore umano, poetica e non invadente, per leggere con semplicità la filosofia “tra le righe” della fiaba».

Altre storie, insomma, che non hanno bisogno di chiedere “Silenzio”. «Lo meritano».



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