Arti Performative Focus

Festival Opera Prima: immagini poetiche e percorsi emotivi

Roberta Leo

Il Festival Opera Prima, organizzato a Rovigo dal 6 al 13 settembre scorsi dall’Associazione Festival Opera Prima e diretto da Massimo Munaro e dal Teatro del Lemming, si è riconfermato anche quest’anno un evento di ampio respiro sulla giovane scena teatrale contemporanea. Sono soprattutto la danza e il teatro fisico ad essere protagonisti di questo festival dal sapore meticcio che spazia tra il teatrodanza tedesco, l’espressionismo nordeuropeo e la danza contemporanea italiana degli anni Ottanta. Presente all’appello e prima tra tutti è, infatti, la Compagnia Abbondanza/Bertoni, testimonianza vivente di quel periodo tanto florido per la danza in Italia e di un vero e proprio azzeramento della tradizione in favore di una nuova ricerca della messa in scena e della composizione coreografica. Piena di contaminazioni tra corpo e tecnologie audiovisive, teatro e immagini questo filone vede ancora oggi i suoi figli attivi sulla scena.

Proprio Valentina Dal Mas, già danzatrice per la Compagnia Abbondanza/Bertoni, è appunto uno tra i frutti più giovani di quella scuola. La danzatrice si muove a piedi nudi sull’erba del Giardino delle Due Torri di Rovigo, poco prima del tramonto, vestita con i semplici abiti da lavoro. Qui presenta la sua creazione I miei fragili amici. Il suo corpo è libero da schemi e codici, danza totalmente libero nella natura, con i capelli sciolti che disegnano nell’aria seguendo il suo movimento. Il suo corpo incontra la parola. Alterna momenti danzati a sessioni poetiche e riflessive, canta Perdere l’amore di Massimo Ranieri agitando una boccetta da cui fa zampillare un rivolo d’acqua infinito. L’acqua scorre infinitamente e l’accompagna per tutta la danza. Nei suoi racconti parla di emozioni e fragilità, ne diventa amica e le porta a danzare con sé con semplicità.

Hyenas forme di minotauri contemporanei della Compagnia Abbondanza/Bertoni va in scena subito dopo. La “parentela” tra i due spettacoli è palese. La poesia di Valentina Dal Mas, “figlia” della storica compagnia, si mostra assolutamente fanciullesca, mentre i “genitori” Michele Abbondanza e Antonella Bertoni sono assolutamente moderni, bestie di scena di grande spicco in uno scenario nazionale della danza contemporaneo più o meno ripetitivo. Abbondanza-Bertoni si serve della metafora di un ballo in maschera “per mettere in scena i volti dell’umanità contemporanea e la sua fondamentale incapacità al silenzio”. I coreografi fondono il tradizionale e primario elemento del teatro, ossia la maschera, con la danza contemporanea. Il volto dei danzatori è coperto con teste ovine e bovine. Essi si muovono prima insieme, come in un gregge, e poi singolarmente alla ricerca della propria individualità. Fondamentale è la relazione tra musica e danza realizzata attraverso ricercate incursioni elettroniche. Una breve sequenza coreografica viene eseguita dai danzatori servendosi dell’effetto sonoro provocato dalle percussioni delle loro stesse mani sul proprio corpo; questa frase coreografica si ripete ciclicamente e coralmente con una precisione d’insieme maniacale, per poi essere intervallata da assoli di presentazione di ciascuno dei cinque interpreti in scena. Spesso percorrono in circolo il palcoscenico ognuno con il “suo” movimento. Anche con il volto coperto rivelano diverse espressioni a seconda delle inclinazioni del capo, delle spalle e della postura mentre, una volta tolta la maschera, vengono colti da un’improvvisa immobilità o da una danza frenetica. Questi momenti sono accompagnati da una mimica facciale volutamente eccessiva, quasi caricaturale, come a voler rimarcare la maschera indossata precedentemente. Come iene i danzatori ghignano in silenzio, mostrano la loro metamorfosi. L’assenza di movimento coincide con l’assenza della musica, segno che lo smascheramento dei personaggi è avvenuto e che il ballo è finito.

Il giovane collettivo veneto Livello 4 porta, invece, con “LOOP” in scena uno studio sul tempo, la vita e la sua assurdità, partendo dal mito di Sisifo. Il perno della coreografia (forse un po’ troppo acerba per il tema trattato e la giovane età dei performers ma con qualche elemento di buone dinamiche) è costituito da una sorta di “eterno ritorno” (anche coreografico) di Nietzsche che vede il corpo dell’uomo arrendersi dinanzi alla forza ciclica della natura. I venti e le tempeste della vita sono gli ostacoli alla libera espressione del corpo che non può fare altro che soccombere.

Molto evocativo appare Alla sorgente della compagnia torinese LabPerm, fondata da Domenico Castaldo, presente in scena e affiancato dagli interpreti Ginevra Giachetti, Marta Laneri, Rui Albert Padul, Natalia Sangiorgio. Il gruppo presenta una performance chiaramente ispirata al mondo greco e, in particolare, ai riti bacchici. La forza liberatoria dei canti e delle danze dionisiache produce un effetto catartico che si traduce nella parola e, quindi nell’analisi di temi cari alla tragedia classica: l’amore, la morte, la ricerca del sé. Il rapporto tra voce, musica e drammaturgia crea una sorta di nube suggestiva che ingloba il pubblico, lo avvolge con il canto come in un rituale antico, di quelli che l’uomo primitivo compiva con i suoi compagni seduti intorno al fuoco.

Dalla poesia alla filosofia, dalla danza alla musica, il festival Opera Prima giunge poi anche alla storia con Sarajevo mon amour di Farmacia Zoo, di e con Gianmarco Busetto e Carola Minincleri Colussi. Lo spettacolo racconta una storia d‘amore in un pezzo di storia: quella tra Boško Brkic e Admira Ismic, conosciuti come “Giulietta e Romeo dei Balcani”, fidanzati di etnie e origini differenti, uccisi da un cecchino e morti abbracciati sul ponte di Vrbanja, mentre cercavano di fuggire insieme da Sarajevo, per poter continuare ad amarsi e a vivere la loro vita. Gli attori si servono di due mezzi narrativi: la loro stessa voce, tramite cui si rendono interpreti dei due innamorati, e una piccola telecamera, che proietta sul fondale del palcoscenico le immagini in essa conservate in un numero infinito, come in un gioco di specchi. I due attori manovrano a turno la videocamera raccontando dei due protagonisti in terza persona ma compiendo fisicamente le loro azioni narrate. Cambia l’angolazione dell’obiettivo, zoommano e si allontanano dal focus, creando particolari effetti ottici e cambiando continuamento prospettiva saltano da una visione storica ad una più romanzata, alternano gli orrori della guerra alla spensieratezza di un amore tanto giovane quanto intenso.

L’eco della falena di Cantiere Artaud. Foto di Valentina Gnassi

Infine, L’eco della falena di Cantiere Artaud diretto da Ciro Gallorano e con Sara Bonci e Filippo Mugnai è un percorso di immagini evocative e ricordi. Il tempo e la memoria sono la forza motrice della scena fatta di piccoli gesti che una donna compie nell’intimità della sua camera. Chiaramente ispirato al testo di Virginia Woolf, lo spettacolo è, tuttavia, quasi interamente muto. L’inseguirsi di luci soffuse e ombre svela due porte chiuse in fondo al palco che la donna non ha il coraggio di aprire. Dietro queste si cela un uomo che prima irrompe con prepotenza nella camera e poi cammina lentamente verso il proscenio. La donna continua a svolgere le sue azioni: si lava nel catino, si cambia d’abito, si pettina, si prepara per la notte e si corica. L’uomo le si stende accanto, sul letto. Lo spettatore resta nel dubbio se l’uomo rappresenti il futuro o appartenga alla memoria del passato. Conserva solo le bellissime immagini create dalla donna muovendo le sue mani dalle dita affusolate che sembrano voler assumere la forma di un bozzolo dalle cui fasce si libererà una farfalla. Così come pure l’ultimo gesto di lei che, rimasta sola, mima l’atto ripetitivo del lavoro a una macchina da cucire. Una catena di montaggio che si fa sempre più intensa e frenetica, e su cui si chiude il sipario.

 

[Immagine di copertina: Compagnia Abbondanza/Bertoni, Hyenas forme di minotauri contemporanei. Foto di Matteo Festi]



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