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L’uomo dal cervello d’oro: la fantascienza tra danza, videoarte e musiche dei Mokadelic

Franco Cappuccio

Il 13 e il 14 febbraio è andato in scena a Roma, al Teatro Parioli, all’interno della rassegna “Parioli in danza”, L’uomo dal cervello d’oro di [RITMI SOTTERRANEI] contemporary dance company, uno spettacolo che mette in campo saperi e linguaggi differenziati grazie al coinvolgimento di figure artistiche diverse, dalla coreografa Alessia Gatta, all’artista visiva Viola Pantano, al coreografo Marco Angelilli, che qui ha curato la drammaturgia, al light designer Daniele Davino, alle note del gruppo post-rock Mokadelic.

Abbiamo chiesto ad Alessia Gatta di parlarci di questo progetto, in attesa della sua presentazione al Busan International Dance Festival di Seoul prevista per luglio 2017.

L’uomo dal cervello d’oro: a chi o a che cosa allude il titolo?

Racchiudere in una o pochissime parole i concetti che volevo esplorare con questo nuovo lavoro non era impresa facile, eppure L’uomo dal cervello d’oro è arrivato quasi da sé. La produzione artistica è sempre preceduta da una serie di incontri. Al mio fianco, Marco Angelilli e Viola Pantano, artisti e fedeli collaboratori.

Volevamo lavorare su un progetto che avesse la valenza di un contenitore perché venivano fuori idee e suggestioni in maniera disordinata e questo non ci dispiaceva affatto. Dopo un po’ di tempo ci era sempre più chiaro che il lavoro stava prendendo una piega molto diversa dal precedente, pur mantenendo una stessa matrice di identità e linguaggio, e ci siamo fatti guidare dall’istinto e da un po’ di incoscienza.

È stato per me un momento delicato, volevo raccontare una danza che arrivasse a tutti ma sentivo l’irrefrenabile bisogno di buttarci dentro qualcosa di estremamente personale. Pensavo intensamente a mio padre, che avevo perso da pochissimo e ho deciso che dovevamo partire da un punto ben preciso, un ricordo che avevo e che mi aveva segnata profondamente. Il 31 Luglio 1992 mi trovavo presso il KSC (Cape Canaveral-USA) per il lancio dello space shuttle “Atlantis” per il quale mio padre aveva lavorato. Quel ricordo ha suscitato in me una serie di domande: come ci si prepara a un momento del genere? Come si sarà preparato mio padre ad essere uno degli autori e come ci si prepara ad essere una giovane spettatrice di un evento così importante? All’epoca avevo 17 anni. Da queste domande sono nate delle immagini, dei percorsi e una linea di confine tra la scienza e la meraviglia.

In uno degli ultimi incontri la musica sovrastava le parole e la stanza era cosparsa di appunti, immagini, poesie e nella confusione, Viola ci stava parlando di alcune sceneggiature che voleva mostrarci, scritte da suo zio, Melchiade Coletti, intorno agli anni ‘70. Tra la pila di fogli spunta la copertina di un trattamento per un film giallo-poliziesco.

L’uomo dal cervello d’oro si era palesato a noi come un’apparizione, ci siamo guardati e abbiamo esclamato: è perfetto!

Era la sintesi di tutti i flussi di parole che avevamo percorso fino a quel momento.

Il progetto, di [Ritmi Sotterranei], nasce dall’incontro tra personalità provenienti da ambiti assai diversi: da te, che sei la coreografa, al light designer Daniele Davino, dalla band musicale Mokadelic all’artista visiva Viola Pantano, da Marco Angelilli che ha curato la drammaturgia, a danzatori e performer di nazionalità e background differenti. Com’è stato possibile quest’incontro?

È risaputo che il cervello è una macchina meravigliosa e se c’è qualcosa che può superarla di sicuro risiede nell’insieme di più cervelli.

Gli incontri artistici si sono susseguiti in maniera naturale. In un lavoro c’è sempre una buona dose di fortuna che va considerata e attesa. Con Viola, che oltre a essere una danzatrice del mio nucleo stabile è stata autrice di Cosmic Tides, progetto espositivo satellite allo spettacolo, e Marco che ha lavorato al mio fianco nella stesura del lavoro, nella direzione drammaturgica e con gli interpreti – per le parti teatrali – la collaborazione è consolidata ormai da molti anni. Nel periodo di progettazione dove tutto era ancora da definire stavo lavorando alla coreografia per un videoclip al limite tra il pop e la videoarte (Dust and Light – di VVcreativepersonalities) e il montatore, parlando del mio nuovo progetto mi ha suggerito, una volta comprese le mie esigenze visive, di contattare Daniele Davino che lui conosceva e stimava molto. Dopo pochi giorni Daniele ha sposato il progetto L’uomo dal cervello d’oro e da lì è stato uno scambio continuo di suggestioni che ci hanno portato a definire le ambientazioni dello spettacolo. Per i Mokadelic è stato molto semplice, conoscevo il loro lavoro dal film del 2008 Come Dio comanda di Salvatores e poi inevitabilmente per la colonna sonora, nota al grande pubblico della serie Gomorra. La scorsa estate sono stata ad un loro concerto dove presentavano in parte anche brani tratti dall’ultimo album e in quell’istante mi sono accorta che le loro sonorità erano completamente in linea con gli intenti del progetto che avevo in mente.

Il loro Chronicles è un doppio album suddiviso in due capitoli: il primo, di ispirazione post-rock e il secondo, elettronica. I due volumi rispecchiano diversi approcci alla musica, uno umano, caldo e naturale, l’altro duro ed elettronico. Tutto questo collima in maniera evidente con la nuova produzione che esplora l’incontro tra una danza da laboratorio fatta di tempo, materia e spazio, di ragionamento e rigore e una danza interna, organica ed emotiva.

La scelta di un cast internazionale, composto da elementi di diverse estrazioni tecniche e interpretative, è stata un’esigenza avvertita fin dal primo momento. Per L’uomo dal cervello d’oro, e per la maggior parte dei miei lavori, avere volti e storie molto diverse tra loro è una caratteristica costante, e in fondo credo che questo sia dato dal fatto che vorrei sempre riportare sulla scena un estratto della società di cui facciamo parte. È una sorta di dovere che sento nei confronti della contemporaneità. Gli interpreti dello spettacolo sono otto, quattro di loro sono stati selezionati con una call internazionale; gli altri quattro fanno parte del nucleo stabile dei [Ritmi Sotterranei]. Prediligo lavorare con danzatori differenti per stile, fisicità e interpretazione. In generale, mi affascinano quelli che emotivamente si lasciano coinvolgere molto e sono disposti a mettere a disposizione non solo abilità tecniche, ma soprattutto personalità.

Il formato dello spettacolo sembra affondare radici nella sperimentazione della danza postmoderna americana, cui non è insolito il tema della macchina, e soprattutto delle possibilità di ibridazione tra linguaggi diversi. Quali sono stati i modelli di ispirazione del lavoro? Che tipo di confronto vi è stato tra le figure professionali coinvolte?

Il tema della macchina è senza dubbio presente, siamo circondati e intrisi di rimandi visivi e psicologici a questo tema. Molti degli immaginari ai quali facciamo riferimento non sono radicati nella danza, ma partono senz’altro da forti riferimenti cinematografici, trascorsi visivi che fanno parte di una riflessione collettiva e, forse, senza tempo. Volevamo parlare di molte cose, pur non perdendo di vista la danza e il teatro come linguaggi principali e senza incentrare tutto esclusivamente sulla fantascienza. Mi piace credere che lo spettacolo sia come un ricordo di un film visto molto tempo fa, di cui conserviamo alcuni frame e altri li abbandoniamo con il passare del tempo. È il nostro cervello a compiere una missione speciale nel ricostruire una storia. Quando raccontiamo qualcosa di recondito, scomponiamo il senso cronologico degli eventi e diamo vita ad una storia nuova. Lo spettatore non può esonerarsi dall’interpretazione, questi frame dovrebbero condurlo in direzioni diverse; non so stabilire quali, perché questo dipende dal suo background. L’uomo dal cervello d’oro è un viaggio di 60 minuti a bordo di una DeLorean; vogliamo dare allo spettatore i mezzi, mentre il resto si prolunga nella sua mente, nella sua coscienza. Il “se” presunto è un sintomo che slancia lo sguardo dal piano visivo a quello del visibile, ovvero alla probabilità che il vedere ha congiungendosi con l’immaginario. Negli ultimi cinquant’anni, anche considerando la diffusione dei nuovi media, il tema della fantascienza è stato approfondito da molti artisti.

La ribellione della creazione artificiale nei confronti del suo creatore in film come Il mondo dei robot (1973) di Michael Crichton che si è evoluto nell’attualissima serie tv statunitense Westworld – Dove tutto è concesso; l’esistenza, le passioni, l’amore e il dolore nella poesia della Szymborska che si ascolta nello spettacolo; la destabilizzazione della società e dei sentimenti umani di Black Mirror, hanno sicuramente avuto un ruolo di spessore nel guidare lo spettacolo verso strade inaspettate e velate di meraviglia.

Tra gli artisti che hanno collaborato al progetto c’è stata una forte sinergia e una volontà di scambio che contraddistingue senza dubbio il lavoro della compagnia. I ruoli restano ben distinti perché crediamo che un lavoro ambizioso, senza ordine, possa perdere la sua produttività, ma questo non prescinde dall’instaurare uno scambio sano dove la musica incontra lo spazio, che a sua volta che ospita i danzatori stimolati a partecipare attivamente alla fase di creazione.

Il rapporto tra tutti noi è stato intenso e, a tratti, positivamente tormentato. Un unico comune denominatore: la volontà di spingersi oltre!



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