Libri

DeBrevitateEstate. Una storia semplice

Roberta Iadevaia

Per la nostra rubrica #debrevitateestate un capolavoro da leggere d’un fiato: Una storia semplice, il piccolo grande “testamento spirituale” di Leonardo Sciascia

Difficile sopravvivere all’estate tra riviste di gossip e juke-box. Per fortuna una soluzione (legale) esiste: i bei libri, meglio ancora se “classici” ché quelli non deludono mai. Per questo motivo, per la nostra piccola rubrica #debrevitateestate dedicata appunto alle letture brevi della seconda metà del Novecento, abbiamo scelto un piccolo grande capolavoro: Una storia semplice, l’ultimo romanzo di Leonardo Sciascia pubblicato, per suo stesso volere, il 20 novembre 1989, giorno della sua morte.

In questo volume lungo poco più di sessanta pagine e scritto in forma di racconto poliziesco vi è tutto: una trama avvincente, una morte misteriosa, un umile brigadiere intenzionato a far luce sulla vicenda, un finale magistrale e un corollario di personaggi così realistici che pare di averli sempre conosciuti. Ma soprattutto vi sono i temi cari allo scrittore siciliano: gli stretti legami tra mafia e istituzioni – anche se nel testo non appariranno mai esplicitamente le parole “mafia”e “droga” – l’indifferenza e l’omertà delle persone comuni, le grottesche diatribe tra tutori della legge, vi è insomma la “semplice”, quotidiana storia della Sicilia/Italia sonnacchiosa e indolente, che preferisce guardare da un’altra parte e continuare a (soprav)vivere nonostante tutto.

Vi è poi, ovviamente, lo stile inimitabile di Sciascia, pulito e raffinato nonostante le paludi attraversate dalla sua penna, semplice e colto insieme, lontano da facili populismi. Lo scrittore di Racalmuto osserva l’intera vicenda con nostalgico distacco tanto che a volte sembra di percepire, tra una frase detta e le dieci non-dette che a essa sottendono, un sospiro dettatogli dalla rassegnazione, da quell’amara consapevolezza a cui, dopo tanti anni di lotta, pure era giunto, come sembrerebbe suggerire la citazione di Friedrich DürrenmattAncora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia posta ad apertura di un libro, lo ricordiamo, postumo.

In questa sorta di “testamento spirituale” dunque la giustizia è morta, così come la verità, insabbiata o travestita da innocuo incidente – parola questa simbolicamente ripetuta tre volte nel finale –  e lo sono finanche gli eroi: non lo è il protagonista, il brigadiere Antonio Lagandara, troppo fragile e troppo solo; non lo è il professore Carmelo Franzò, troppo vecchio e passivo il quale, se non altro, ci regala perle di saggezza come ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza oppure la gelida frase rivolta al procuratore della Repubblica, suo ex-allievo: L’italiano non è l’italiano: è il ragionare […] Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto. Piccole soddisfazioni di un letterato, certo, ma anche pesanti macigni nei quali Sciascia pare riporre le ultime, flebili speranze di cambiamento



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