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“Cos’è ‘tradizionale’ oggi?”: una domanda, e una risposta, di Teodoro Bonci del Bene, ultimo ospite di Mutaverso Teatro

Franco Cappuccio

Ed eccoci qua, al termine della stagione Mutaverso Teatro diretta da Vincenzo Albano a Salerno, che abbiamo seguito passo dopo passo. Un programma talmente differenziato nell’offerta che, pur mantenendo il comune denominatore dell’elevata qualità artistica, non è possibile riassumere in una linea unica di linguaggi o di tematiche, perché ha puntato, piuttosto, alla conoscenza e diffusione di una “fotografia” della scena contemporanea nazionale. Tuttavia, dalla Russia dei Demoni di Dostoevskij nel bel progetto curato da Alessandra Crocco e Alessandro Miele, penultimo appuntamento della presente edizione Mutaverso Teatro, facciamo ritorno in Russia con un testo di Ivan Vyrypaev, drammaturgo, regista e sceneggiatore contemporaneo al centro di un progetto, “Cantiere Vyrypaev”, dedicato al suo teatro, che Teodoro Bonci del Bene, regista e fondatore – accanto a Matteo Rubagotti, Carolina Cangini e Kristina Likhaceva – della compagnia Big Action Money residente a Rimini, sta portando avanti dal 2013 con il suo gruppo grazie a L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino. Così, stasera alle ore 21, presso la Sala Pasolini salernitana si potrà vedere in prima regionale Illusioni, uno degli esiti del progetto di residenza artistica sui testi di Vyrypaev. Scritto nel 2012 e rappresentato per la prima volta al Teatro Praktika di Mosca, Illusioni solleva quesiti che riguardano il tempo e lo spazio in cui fluttuano le nostre vite, e lo fa attraverso quattro storie, quelle di due coppie di sposi che hanno vissuto assieme tutta la vita finché improvvisamente, in punto di morte, scoprono di non sapere chi sia la persona con la quale hanno trascorso tutta la vita. In attesa di vedere lo spettacolo, abbiamo sentito il regista Teodoro Bonci del Bene per accostarci al teatro di Ivan Vyrypaev, prolifico e straordinario autore in Italia ancora troppo poco conosciuto, ricavandone riflessioni interessantissime e altre domande ancora, che ci trascineremo per molto tempo.

Come mai la decisione di lasciare l’Italia per un Paese sicuramente affascinante per la sua storia e la sua cultura ma sicuramente lontano dal modello produttivo/distributivo occidentale?

Sono stato lì solo per studiare. La Russia è un Paese che frequento sporadicamente, perché sono in contatto con Vyrypaev e con molti altri. Sono andato fino a Mosca per studiare, perché a diciassette anni ero giovane, quindi poco consapevole del fatto che ciò avrebbe avuto dei risvolti significativi. La scelta non era la Russia in sé, volevo solo studiare nell’Accademia in cui poi ho studiato, cioè quella del Teatro d’Arte di Mosca. Di quella scuola avevo incontrato alcuni insegnanti qui in Italia, e il motivo per cui fondamentalmente poi l’ho scelta per il mio percorso era il programma. Molto lungo, di quattro anni, prevedeva tantissime ore di studio curriculari ogni giorno, con tanti spettacoli. La ragione principale, però, resta che avevo diciassette anni quando ho incontrato alcuni dei maestri della scuola, e a quell’età, in cui stai ancora decidendo che cosa fare nella tua vita, certi incontri si rivelano una folgorazione.

Ti sei avvicinato alla drammaturgia contemporanea e in particolare a Vyrypaev, che poi hai anche conosciuto di persona. Su Vyrypaev e i suoi testi hai iniziato questo progetto “Cantiere Vrypaev” di cui Illusioni fa parte. Qual è stata la molla nella sua drammaturgia che l’ha fatto scattare?

Come sempre il motivo non è uno solo, ma ce ne sono tanti. Avevo molto sentito parlare di Vyrypaev mentre ero a Mosca, ma non ero andato a vederlo mentre studiavo . Poi mi sono trovato al Festival di Avignone nel 2007, e per la prima volta ho visto la messa in scena di due suoi testi, Ossigeno e Genesi N.2. Io ai tempi non parlavo francese, adesso un pochino lo capisco; nonostante questo, la visione fu come se, in senso positivo, mi avessero preso a schiaffi. Mi sono trovato in piedi ad applaudire alla fine di uno spettacolo che era tutto di testo, in francese, del quale non avevo compreso nulla. Non so perché mi sono ritrovato in piedi ad applaudire, ma la cosa strana è che poi mi sono accorto che tutti, intorno a me, erano in piedi ad applaudire. Lì ho avuto la mia prima folgorazione. Così sono andato a cercarmi il testo di Genesi N.2, l’ho letto in italiano, e mi è sembrato una cosa meravigliosa; ho deciso di tradurlo, e l’ho fatto quasi subito. Da quello, ho iniziato a cercare materiale su Vyrypaev, ho visto i suoi film. Nel 2012, o forse 2013, sono andato a vedere Illusioni a Mosca, dove in scena c’era un mio carissimo amico, purtroppo scomparso un mese fa, che ha poi collaborato anche con me al “Cantiere Vyrypaev”. In sostanza io ero andato a teatro per vedere questo mio amico che era in scena, perché nel frattempo avevo iniziato a fare altre cose, e mi ero un po’ dimenticato della prima folgorazione verso Vyrypaev. Quando ho visto lo spettacolo ho chiamato subito i miei colleghi di Rimini con cui condivido la compagnia per iniziare a lavorare sui suoi testi: mi aveva fatto esattamente lo stesso effetto della prima volta.

È anche un modo per far conoscere una drammaturgia “altra” in un’epoca in cui lo sviluppo degli spettacoli di drammaturgia contemporanea in Italia parte o da testi di italiani, o da testi di artisti (come ad esempio Pommerat) che sono diventate delle celebrità tanto grandi che hanno iniziato a chiamarli prima in Italia e poi a realizzare messe in scene italiane delle loro opere?

Questo sarebbe un intento culturale, che non è il nostro. Noi facciamo delle cose per molti motivi: alcuni sono di pura casualità, altri legati a un sentire personale o a cose del genere. Io credo che sì vogliamo far conoscere una drammaturgia “altra”, diversa, che altrimenti non sarebbe arrivata, ma per noi ciò è una conseguenza. Ci sono tanti altri autori stranieri contemporanei sui quali avrei potuto lavorare e iniziare a far conoscere in Italia. Quando io ho visto Illusioni ho pensato: «io lo voglio condividere, e voglio che il pubblico lo possa vedere tradotto in lingua italiana». Fare cultura non è una cosa studiata a tavolino, ma il frutto di una sincerità. Il “Cantiere Vyrypaev” di fatto è nato molto tempo dopo la decisione di fare Illusioni. Ed è nato perché ci siamo resi conto che Vyrypaev è un autore molto prolifico, noto ed edito in tutta Europa, completamente inedito e sconosciuto in Italia se non per Ossigeno messo in scena da Pietro Babina ormai molti anni fa; ci è sembrato bello condividere la sua conoscenza con molte altre persone che potessero, a loro volta, leggere i suoi testi o metterli in scena. Noi ci siamo preoccupati, quindi, di tradurre e di mettere in scena Vyrypaev in Italia. Altri, come Gerardo Guccini, Fausto Malcovati, di parlarne in termini teorici, con cognizione di causa all’interno del panorama di cui facciamo parte.

Le opere di Vrypaev hanno un forte aggancio al testo e alla parola, cui fa da contraltare una messa in scena per certi versi “tradizionale” nel suo impianto, il che ovviamente non è un giudizio di valore ma una caratteristica. L’accento che il drammaturgo vuole dare è quindi sull’uso della lingua (ad esempio usare monologhi senza punteggiatura, etc.)?

No, le messe in scena di testi di Vyrypaev non sono affatto tradizionali! Bisogna capire che cosa intendiamo per “tradizionale”; se per “tradizionale” intendiamo il fatto che non c’è un coccodrillo scuoiato, a testa in giù… ok, è “tradizionale”. Può essere tradizionale, forse, nella misura in cui diciamo che nei testi di Vyrypaev è molto difficile infilare dentro delle immagini, con l’utilizzo di scenografie, costumi, ecc., essere provocatori… E l’accento non è sull’uso della parola. Vyrypaev ha scritto una ventina di testi, e sono tutti diversi: in alcuni ci sono dei personaggi e c’è una storia, altri sembrano scritti da un Cechov del ventunesimo secolo, altri ancora sono assolutamente postdrammatici. Dipende. Non c’è una sola regola. Non c’è nulla di tradizionale in Vyrypaev, ma qualcosa di “antico”, che viene prima della tradizione, per come la vivo io. Basta leggere quello che scrive, o anche che facciamo noi: non facciamo cose strane, ma la distinzione fra “classico” e “contemporaneo” non va cercata nell’immagine visiva che hai davanti agli occhi, ma nel linguaggio, cioè, nel tipo di struttura che sottende il dialogo che si realizza. Nei testi di Vyrypaev, se noi sostituissimo alcuni termini contemporanei con dei termini più arcaici, comunque si vedrebbe benissimo che il testo è un testo scritto nel ventunesimo secolo. Non vale lo stesso per alcuni grandi classici. Se i testi di Vyrypaev fossero stati scritti in altre parole, con un lessico antico, si noterebbe comunque la struttura di pensiero assolutamente contemporanea con cui lui si approccia al dialogo, fra il palco e il pubblico per esempio, e mai fra gli attori in scena… Noi, come Big Action Money, poi, ci mettiamo del “nostro”. In noi di “tradizionale” c’è per esempio che non cerchiamo la stranezza come cifra stilistica, “la stranezza in nome della stranezza”. Proprio questo, per me, paradossalmente è diventato contemporaneo, perché ormai è molto conformista fare le “cose strane”, le fanno tutti: rinunciare a mostrare la propria erudizione, intelligenza, rinunciare a mettere alcune citazioni che solo pochi possono comprendere, rinunciare a tutte quelle “scatole cinesi” che fanno sentire il pubblico che ci arriva “intelligente”, e quello che non c’arriva “stupido” perché non capisce che cosa sono quei rimandi ad altro. Noi queste cose le potremmo fare, le sapremmo fare, e non è che non le vogliamo fare, ma farle solo se necessario: non devo raccogliere consensi, non devo raccogliere quel tipo di applausi, cioè gli applausi di quelli piuttosto che di quegli altri, oppure preoccuparmi di essere etichettato in un modo piuttosto che nell’altro. Per me questa è una scelta contemporanea, e mi stupisco se viene vista come una scelta “tradizionale”; però, appunto, mi stupisco, non mi scandalizzo. Secondo me la domanda andrebbe posta in un altro modo, e cioè, «che cos’è tradizionale oggi?», e dopo quanto tempo, quanti anni, una cosa che esiste passa poi a essere percepita come “tradizionale”? Perché in base a quello, io posso dire che è l’opposto.

Avendo visto anche in sala cinematografica Tanets Deli, che fu presentato al Festival del Cinema di Roma nel 2012, mi sono reso conto che c’è ovviamente una grossa teatralità nei film di Vyrypaev, ma al tempo stesso nella teatralità c’è comunque il recupero di un linguaggio cinematografico, che si riflette sulle sue opere teatrali. Avendo voi lavorato anche a cose legate al rapporto tra performance e cinema (vedi Kislorod) quanto sentite forte questo rapporto?

Premetto che non sono un esperto di Vyrypaev, io sono uno che mette in scena i suoi testi o che semmai li traduce, resto comunque un regista. Vyrypaev in generale non si pone il problema riguardo quello che sta facendo, se sia teatro oppure cinema, ma vede entrambi i linguaggi come “mezzi” per esprimere quello che sta facendo. Ne è dimostrazione il fatto che quando la gente gli chiedeva «qual è il tuo prossimo spettacolo?» lui rispondeva «è un concerto»; e se pure gli richiedevano «no… il tuo prossimo spettacolo?», lui ripeteva: «è un concerto»! Ha fatto un vero e proprio concerto di cui ha firmato la regia, ha scritto dei testi, ma quello spettacolo è stato per lui un concerto. Ciò significa che ci sono linguaggi diversi che si prestano a quel progetto in base al tipo dialogo che uno vuole instaurare con il pubblico. Chiaramente, mischiando le carte, il confine tra il linguaggio e un altro diventa più labile. È normale che nel film ci sia qualcosa di teatrale o nella scrittura teatrale qualcosa di cinematografico. Credo sia un po’ come la metrica per la poesia: questo lo faccio in giambi e questo in un altro modo, a seconda di quello che secondo me è il linguaggio per questo progetto più adatto. Così le cose si mischiano. Per quanto riguarda me, sì, abbiamo fatto un progetto sui film che è nato in modo molto casuale, è una cosa alla quale non avevo mai pensato prima.

Avendo vissuto sia il sistema produttivo e distributivo italiano che quello russo, mi chiedevo quali fossero le analogie e quali le differenze di “sistema” e quali secondo te possono essere i fili da seguire per migliorarlo.

Ci sarebbero parole per un trattato! Essenzialmente: in Russia ci sono i teatri di repertorio, in Italia no, ci sono i centri di produzione; lì sono tutti stipendiati, qui in Italia nessuno lo è, perché si viene pagati alla giornata. Sono due mondi, due culture, completamente diverse. Non c’è nulla in comune tra i due modelli, ed è un’utopia pensare di prendere uno dei due e provare di arricchire l’altro.



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