Arti Performative Focus

Cartoline da VIE Festival: “GLI ANNI” di Marco D’Agostin e “Karnival” di Michela Lucenti

Silvia Maiuri

Verso la fine della lunga stagione emiliana dei festival si colloca VIE Festival dal 7 al 16 ottobre. Emilia Romagna Teatro Fondazione ha proposto un programma di teatro e danza diffuso tra i teatri principali di Modena, Bologna, Cesena e Vignola. Questa è stata anche l’occasione per aprire la nuova stagione teatrale nelle città e per dare il segno della direzione artistica che si vuole intraprendere, concentrata soprattutto sulla creazione contemporanea. All’interno del programma di VIE si delineano diversi percorsi: dalla danza alla prosa, dal teatro sociale alla sperimentazione, alle produzioni internazionali. Ci concentriamo qui su due spettacoli di danza a cui abbiamo assistito all’Arena del Sole di Bologna, nell’ambito del festival.

“GLI ANNI”. Foto di Andrea Macchia

È un corpo che danza nell’acqua, lento e controllato da una forza antigravitazionale, che si muove fluido somigliando a una sirena. Ma un momento dopo è lo stesso corpo che ha preso una scossa, che impazzisce e salta freneticamente, che lancia tutti gli arti in direzioni opposte e scuote la testa, fitta di capelli, somigliando, ora, a una baccante. Due figure mitologiche in una sola immagine, quella di Marta Ciappina che danza in un assolo di Marco D’Agostin intitolato GLI ANNI. Performer qui in veste di solo autore, D’Agostin dichiara, introducendo lo spettacolo sul foglio di sala e su uno schermo in scena che lo presenta come fosse un libro, che GLI ANNI è un “romanzo scritto a centro mani”, l’accoglienza desiderata è quella della narrazione sulla scena, pur non trattandosi affatto di un testo didascalico e lineare ma, anzi, molto frammentario. Si racconta la storia di una generazione attraverso (almeno) cento punti di vista e di cui ne riconosciamo sicuramente tre: quello di Marta Ciappina che si presenta al pubblico col suo vero nome e ripercorre con il corpo e la parola tutta la sua infanzia, adolescenza e il suo essere diventata adulta davanti a noi; quello di Marco D’Agostin, che interviene dalla regia con la sua voce e il suo nome come il deus ex machina (ancora una figura del mito) quando Marta gli chiede aiuto dalla scena per suggerirle le parole da dire e per cambiare musica come fosse immersa in un enorme jukebox che comanda i suoi stati d’animo; e, infine, quello di uno spettatore non scelto, potremmo dire “volontario”, che si prende la responsabilità di intervenire nello svolgimento dell’azione scenica quando è invitato a scegliere una canzone da “passare”, appunto, nel jukebox. La drammaturgia sonora ha una fortissima importanza, infatti, nella riuscita di questo spettacolo che ci arriva come una piccola poesia: intima, lavorata sul ricordo personale della performer che si rivede da bambina in una sfida alla conta dei limoni, ma che, proprio come una poesia, quelle che imparavamo a memoria da bambini, è tutta per noi, è un pezzo di letteratura a cui possiamo affidare i nostri ricordi, in cui possiamo, una volta diventati adulti, riconoscerci e ricordarci. L’intenzione del lavoro sembra quella di trascrivere un pezzo della nostra storia, “finita di stampare” nel momento in cui si spengono le luci del palcoscenico e si accendono quelle in sala.

“Karnival”. Foto di Guido Mencari

GLI ANNI fa parte di Carne, un focus di drammaturgia fisica a cura di Michela Lucentinell’ambito di Vie Festival. La stessa Lucenti presenta uno spettacolo firmato Balletto Civile, collettivo di danzatori-attori di cui è da anni capofila.

Carnevale è ambientato in un hotel sospeso nel tempo, in cui gli eventi non scorrono se non per volontà dei suoi abitanti: una famosa cantante in stallo creativo, un prete che pare sia autoctono, del posto, un aspirante scalatore che proietta tutto il suo desiderio verso la cima innevata della montagna che gli sta davanti agli occhi da generazioni, una imbalsamatrice dall’aspetto caricaturale, e il personale dell’hotel, bizzarro e inquietante. Al posto di un metronomo, un musicista sul proscenio batte il ritmo di questo non-scorrere del tempo. Le storie dei personaggi, riuniti in questo spazio illusorio durante la settimana di carnevale, si intrecciano spesso attraverso il movimento. Il corpo infatti è al centro di questa azione anti-narrativa. Danzando i performer sembrano respirare di un solo respiro, uniti, con gli elementi di scena, nella creazione di un grande organo vitale, come un cervello affaticato, sottoposto a stimoli disconnessi e frustrazioni. Nella storia di ognuno infatti c’è un fallimento, una paura per il presente che non si vuole affrontare e che, quindi, si tende a rimandare. Il lavoro che Balletto Civile tenta di fare sul corpo è quasi introspettivo e risulta, però, confuso: il limite di Karnival, per quanto l’intenzione sia quella di fare uno spettacolo ambizioso, in cui corpo e voce si mischiano sul tema della sospensione temporale come “crisi” e, quindi, come fase di ricerca e cambiamento creativo, artistico e personale, è che l’insieme dei riferimenti, le ispirazioni, la perfezione scenica fanno sembrare Karnival un’opera visiva, non destinata alla scena. La cura riservata ai dettagli depotenzia lo scopo iniziale: il crollo della maschera di questi personaggi non avviene, restano caricature governate da pensieri e desideri ossessivi, da una solitudine tragicomica, non adempiendo al patto che lo spettacolo dal vivo dovrebbe instaurare con il pubblico.



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