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“Il tango delle capinere”: Emma Dante e il nostro passato lontano, lontano nel tempo…

Silvia Maiuri

Assistere a uno spettacolo di Emma Dante è fare un salto all’indietro, nel nostro passato, difficile da collocare in coordinate spazio-temporali certe, ma che è il nostro, atavicamente, anche ingenuamente, siamo noi i personaggi della storia che ci si muove davanti. Forse non abbiamo mai vissuto a Palermo, non siamo mai stati ballerini, ballerine, non abbiamo avuto figli né fatto pancake a colazione; e però senza dubbio abbiamo provato emozioni forti, simili a questi personaggi, abbiamo vissuto gioie e dolori di una storia d’amore che sembrava potesse durare per sempre, abbiamo sfidato l’impossibile credendoci eterni, e abbiamo parlato con i nostri morti, confidato nel ricordo, vissuto nella nostalgia.

Foto di Rosellina Garbo

Il tango delle capinere è un compianto che si trasforma in una danza, nel racconto di un amore come tanti e, proprio come tanti, speciale. Una carrellata di ricordi che si materializzano sul palcoscenico, terra di confine dove può accadere l’incontro tra i vivi e i morti. La storia è semplice: una donna anziana vive a ritroso le tappe fondamentali della sua storia d’amore con il marito scomparso, semplicemente aprendo un baule e tirando fuori oggetti della loro vita insieme, così lo rievoca fisicamente sulla scena. Lui e lei erano, sono e saranno sempre due ballerini: «i cchiù bravi du Munnu».

Si tratta del riadattamento di Ballarini parte di quella Trilogia degli occhiali che Emma Dante aveva realizzato nel primo decennio del 2000 e che molto ha contribuito al suo riconoscimento presso la critica e, soprattutto, davanti al grande pubblico. Con la trilogia, insieme ad altri memorabili pezzi teatrali dei primi anni della sua carriera – mPalermu, Carnezzeria, Vita mia – aveva lanciato il suo Manifesto, privilegiando l’uso del corpo dell’attore come strumento vibrante, e una lingua teatrale meticcia, composta dalla sincrasi tra vari dialetti meridionali. La Trilogia degli occhialiunisce tre spettacoli – Acquasanta, Ballarini, Il castello della Zisa – accomunati dalla presenza degli occhiali come oggetto scenico caratterizzante dei personaggi. Una scelta che appartiene a questa poetica di disarmante semplicità e straordinaria bellezza a cui l’artista palermitana ci ha abituati: la semplicità che è sempre stratificata di senso. Qui la nostra quotidiana e recidiva incapacità di vedere la povertà, la malattia, la vecchiaia, ce le mostra sul palcoscenico attraverso la scelta di fare indossare ai protagonisti gli occhiali, una lente sul mondo sommerso cui non vogliamo prestare attenzione.

Oggi con gli stessi interpreti di allora, Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri, la Dante si propone di fare un lavoro più approfondito sull’anzianità. Durante un’intervista di Paola Naldi su “la Repubblica” di Bologna, città che ha accolto Il tango delle capinere presso l’Arena del Sole dal 2 al 5 marzo scorsi, l’artista parla di «vecchi supereroi», e della vecchiaia come la parte più poetica della vita dice: «Io mi incanto a vedere gli anziani alzarsi, sedersi, muoversi, perché il loro corpo, stanco e pieno di acciacchi, quando si muove è interessante. Il movimento ha a che fare con lo sforzo, c’è una forza che spinge il corpo a essere più performativo». In questa ricerca del gesto Civilleri e Lo Sicco hanno concepito e “scritto” i loro personaggi senza nome, corpi mossi da una passione in comune per il ballo, per l’altro, per la vita di coppia. Tutto lo spettacolo è incentrato sul loro incontro, si muovono come un solo organo vitale, uniti e vibranti. Il loro movimento è quello della città di Palermo dove il gesto è paladino della comprensione, ed ha qui lo stesso ruolo che a Palermo; attraverso di esso un dialetto del sud Italia può essere compreso da tutti i pubblici del mondo. Il racconto della loro vita passa attraverso una colonna sonora ricchissima, che supera in quantità il testo parlato: c’è Nilla Pizzi con Il tango delle capinere che dà il titolo all’opera, ci sono Mina, Tenco, Rita Pavone, Morandi, Quartetto Cetra; sono canzoni delle nostre nonne e dei nostri nonni, custodi della memoria, che lasciano alla musica le parole che non sentono più il bisogno di dire o che hanno trattenuto segretamente in cuore per tutta la vita. E proprio come quegli anziani, i protagonisti di quest’opera cantano e danzano fino alla fine dell’anno per ogni capodanno vissuto insieme. E lo fanno fino alla fine del tempo, quando arriva il momento di rimettere tutto dentro i bauli che sono tomba e ristoro.

[Immagine di copertina: foto di Rosellina Garbo]


  • Paese: Francia, Regno Unito

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