Arti Performative Dialoghi

Il teatro, suo malgrado. Conversazione con Claudio Morici

Andrea Zangari

Incontriamo Claudio Morici nella sua San Lorenzo, in una famosa trattoria dove è ancora possibile ordinare le nostalgiche – ed ormai démodé in una città sempre più tarata sulla ristorazione turistica – mezze porzioni. Ci sediamo a tavola e abbiamo subito l’impressione di essere nel posto giusto, alla presenza di una sorta di genius loci. Claudio Morici è un performer romano sui generis, romanziere prestato al teatro per necessità più che vocazione. Ciononostante, i suoi reading riscuotono un successo crescente e sempre più extra-territoriale. Morici, d’altro canto, è sì romano d.o.c., ma è anche un giramondo. Fra il 2008 e il 2012 vive e scrive alcuni suoi romanzi on the road, fra Città del Messico, Granada, Londra, Berlino. Da questa formazione letteraria e girovaga, dai suoi studi in psicologia, dalla passione per la musica, è nata e si è affinata sempre più una poetica particolarissima, intrisa di nostalgia, di disincanto, capace di tagliente ironia, ma ammiccante ad un’interpretazione romanesca e mai volgare della stand-up comedy (da cui, comunque, ci tiene lui stesso a precisare, si discosta). E un bellissimo esempio di tutto questo è 46 tentativi di lettera a mio figlio (di cui parlavamo qui un anno fa): in un panorama teatrale che spesso si perde nell’autoriflessione sul rapporto realtà-finzione, le performance di Claudio Morici appaiono raffinate ma genuine, profonde ma non intellettualistiche, e per questo in grado di stimolare nel pubblico un’immediata empatia. Una via al teatro autenticamente popolare, in grado di corroborare meccanismi vitali di riappropriazione di spazi minori (vedasi l’esperienza del Nuovo Cinema Palazzo col varietà Sgombro o la partecipazione agli spettacoli domestici con la piattaforma teatroxcasa.it). Ultimo suo lavoro è l’applauditissimo Freschibuffi, portato in scena all’Auditorium Parco della Musica, con l’amico e già molte volte partner artistico Ivan Talarico. La nostra conversazione parte da qui.

Claudio Morici e Ivan Talarico, “Freschibuffi”. Lo spettacolo è andato in scena all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 25 gennaio 2019

A gennaio tu e Ivan Talarico avete fatto tappa all’Auditorium Parco della Musica di Roma con FreschiBuffi. Come ci sei arrivato in una cornice così importante, dalla miriade di spazi off in cui porti i tuoi reading?

È stato facile, c’erano un sacco di cartelli per tutta Roma che indicavano l’Auditorium.

Serio?

Ogni anno provo a fare una o due tappe importanti, per far conoscere lo spettacolo fuori dal mio tradizionale circuito. L’anno scorso è stato il Teatro Vascello con la prima di 46 tentativi di lettera a mio figlio. A dirti la verità, ora mi sono stufato. Non so se lo sforzo sia utile. Col classico 70-30 di incasso, togli SIAE, agibilità, percentuale per la produzione, tasse. Oggi, a Roma, non ha più senso dividere gli spazi off da quelli istituzionali. Bisognerebbe almeno dividere l’off in sottocategorie. C’è un off ormai entrato regolarmente negli spazi istituzionali e nelle grandi produzioni, come il Teatro India. Poi c’è un “off dell’off” che sopravvive in spazi piccolissimi, dove non va quasi nessuno, o solo la mamma e gli amici dell’attore. Io mi sento un po’ in un off de’ mezzo.

Tu sei prima di tutto uno scrittore. Ma il teatro cos’è per te? Cosa ti ha avvicinato alla scena?

È una necessità. Il teatro è uno fra i mezzi per poter scrivere e sopravvivere con la scrittura. E ci sono arrivato un po’ per caso. Mi ci hanno portato le mie amicizie “da scrittore” di San Lorenzo, dove vivevo. Ivan Talarico, Andrea Cosentino, Graziano Graziani, Daniele Parisi, Eleonora Danco, Christian Raimo. Alcuni fanno parte del gruppo di Sgombro, il varietà che facciamo ancora adesso al Nuovo Cinema Palazzo. Ci siamo incontrati a spezzoni negli anni. Eravamo un gruppo di persone decisamente squattrinate. Sai quando si fa uno spettacolo e poi si va tutti a cena fuori? Ecco, noi a cena non ci andavamo mai. Che poi non è che ora stiamo messi tanto meglio…

Negli anni universitari hai studiato psicologia. Cosa ti porti di quella formazione? Come mai non hai proseguito lungo quel sentiero professionale?

Potrei dire che in quel periodo si è formata una prima poetica. Il desiderio di portare nel mondo dei sani il contenuto del mondo psicotico, studiandomi anche il lavoro di quelli che avevano tentato di farlo col cinema e la letteratura, come Fellini, Huxley, Burroughs, Kubrik. Poi ho capito che poteva essere un esperimento impossibile, una strada sbagliata. Se non c’era riuscito Fellini (non riuscì mai a finire Il viaggio di G. Mastorna), figurati se ci sarei riuscito io! All’inizio quindi ho lavorato nelle comunità terapeutiche, ma poi ho capito che non era il ruolo che mi interessava. La cosa che non ho mai ben capito è il senso della psicoterapia. A volte quando leggo di psicologia o sento conferenze mi sembra di andare in chiesa. Allora ho cambiato lavoro, sono diventato un pubblicitario e ho trovato una certa stabilità; poi, però, mi sono preso a schiaffi da solo, come faccio spesso: volevo scrivere.

Quando hai iniziato a scrivere? Hai avuto dei maestri?

Il primo romanzo serio l’ho scritto e mi è stato pubblicato a trent’anni [Matti da slegare, ndr]. Fino ad allora ho imparato lentamente, da autodidatta. Ma ancora oggi scrivere è un lavoro molto lungo, la mia prima stesura fa ridere… (quindi andrebbe già bene in realtà!?) Ho imparato anche che per essere uno scrittore dovevo vivere in un certo modo, avere coraggio. Scrivere ti espone a dei momenti di paura: anche ora, quando scrivo per uno spettacolo, c’è sempre un momento di paura. Fa parte del processo creativo. Non sai cosa scrivere, ma ti metti a scrivere lo stesso. Mi è stato anche chiaro che non puoi scrivere romanzi e vivere a Roma. Devi almeno fare un altro lavoro, ma questo ti fregherebbe tutto il tempo. Allora sono partito e ho vissuto sei anni all’estero, dormendo negli ostelli più economici, e mantenendomi come freelance nel mondo dell’advertising, con gli anticipi degli editori. Vivere all’estero mi permetteva di spendere meno che a Roma e avere tempo per scrivere, oltre alla miriade di incontri pazzeschi. Sono stato a Città del Messico, Granada, Londra, Berlino. A Berlino con seicento euro al mese esci tutte le sere, vedi concerti, mostre, spettacoli. Qui mi hanno aiutato molto i consigli di alcuni amici come Giacomo Ciarrapico [regista, tra l’altro, della fortunata serie Boris, ndr), Sabina Guzzanti. Mi ricordo anche un amico danese conosciuto a Berlino. Suonavamo in un gruppo folk negli ospizi, per guadagnare due soldi. A lui piaceva fare storytelling con accompagnamento musicale, una tradizione molto diffusa nei paesi scandinavi. Lavorava senza testo, inventando la storia. A volte si registrava per risentirsi. Non lo avrei mai immaginato allora, ma quel modo di raccontare lo porto con me anche oggi sul palco.

E quando ti è venuta per la prima volta l’idea di passare dalla scrittura al reading?

Cominciai a leggere dei frammenti dei miei romanzi alle presentazioni nelle librerie o nei bar, quasi sempre a Roma Est. Così si è sparsa la voce, qui e là, che “Morici te fa taja’!”. Quindi ho cominciato per divertimento. Fino a quando Veronica Cruciani mi ha invitato nel 2013 a leggere in una rassegna al Teatro Biblioteca Quarticciolo. Allora ho pensato di creare una storia da zero, e di invitare Ivan Talarico ad accompagnarmi con la chitarra. Ho scritto lo spettacolo di notte, per molte notti, dopo che la mia ex compagna e il nostro bambino si addormentavano. In quel tempo non sarei mai riuscito a scrivere qualcosa di più lungo come un romanzo, ed è venuto fuori quello che secondo me è stato forse il mio spettacolo migliore: L’ultima volta che non ti ho amato. L’anno dopo nello stesso teatro ho avuto due date, e altri locali romani hanno cominciato a chiamarmi. 

Nel tuo lavoro la comicità sembra muovere spesso dal bisogno di sdrammatizzazione alcuni mali relazionali profondi. Si sente che l’impegno vitale che porti nei reading ha il valore di un atto di resistenza. C’è una dimensione politica esplicita nella tua poetica?

Ho usato spesso il termine “resistenza”. Ma quello contro cui resistevamo, per me, ha già vinto; noi sopravviviamo, e quindi oggi forse preferisco parlare di “esistenza”. Quello cui sopravviviamo è il senso che domani sarà meglio di oggi. Quindi cerco, cerchiamo, di trovare modalità nuove di esistenza. Sopravviviamo anche accettando un certo grado di illegalità oppure portando il teatro nelle case. Perché il teatro lo fa il pubblico, non il luogo, e se resta fermo nelle sue piazze istituzionali morirà o sarà marginale. Essere politico e scomodo non è un obiettivo, non è una parte consapevole della mia poetica. Sento di risultare scomodo per il fatto che parlo spesso ed esplicitamente del problema della sussistenza economica nel mondo dello spettacolo. Come se ci fosse un galateo che impone di evitare l’argomento. Invece è importante parlarne, anche per evitare di dare un’idea sbagliata ai giovani che si avvicinano a questo mondo, in cui sopravvivere – anzi, esistere – è quasi impossibile se non si hanno delle risorse a monte.

Quindi quali sono le possibili strategie di sopravvivenza che il mondo del teatro dovrebbe provare?

A me piace l’idea che lo Stato sia presente il meno possibile: poche sovvenzioni a pochissimi centri sperimentali d’eccellenza, dove i prodotti di ricerca possono crescere quando ancora non hanno pubblico.  Poi ci sono posti che funzionano benissimo, come ad esempio Carrozzerie N.o.t., che già hanno un’attrattiva e un’identità forte, e il pubblico li riempie. Magari basterebbe dispensarli dall’IMU, pagargli parte dell’affitto, SIAE, etc., quando invece le istituzioni li abbandonano a se stessi, in un business difficilissimo anche a risultato raggiunto. A Roma, secondo me, la via principale dovrebbe essere la detassazione. È giusto, secondo me, che attori, autori e operatori culturali non si attacchino ai bandi e ai finanziamenti: devono vivere se piacciono al pubblico. Mi piace l’idea che il pubblico paghi se si diverte, e non paghi in caso contrario. E quando un artista capisce d’esse una pippa, cerchi un altro mezzo di sopravvivenza, accetti di “morire”. Poi ci sono strade come quella del teatro in casa, che io faccio con la piattaforma “Teatro x casa”, in cui chiunque può iscriversi e ospitare uno spettacolo condividendo il suo spazio. 

Spesso usi il plurale. Gli artisti che hai citato, gli incontri nella tua San Lorenzo – che spesso sono presenti nei tuoi reading – creano una comunità di fatto? 

Sì, perché ci aiutiamo scambiandoci contatti e consigli senza competizione, o almeno con una sana competizione. Ci sono piccole comunità di artisti romani, come Sgombro al Nuovo Cinema Palazzo e Ugo, un altro varietà, al MONK. Non sono contesti strettamente teatrali. Rispetto al mondo del teatro-teatro credo che abbiamo molto meno livore e rancori vari. Diciamo che se siamo una comunità siamo accomunati dall’idea di divertirci molto.

 46 tentativi di lettera a tuo figlio: un toccante e divertente tentativo di comunicare a tuo figlio il senso della tua esperienza. Cosa risponderesti a tuo figlio se fra qualche anno ti dicesse che vuole fare teatro?

Fingerei di essere preoccupato!



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