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“Dov’è la Vittoria” al CTF21: ritratto con attori di una leader di estrema destra candidata alla Presidenza del Consiglio

Alessandro Fiorenza

Scrivere di un personaggio, ricostruirne la personalità, i desideri, le ambizioni e la storia non è mai un processo che si muove dall’alto verso il basso, un puro atto di creazione autoriale, anche se può sembrarlo. Piuttosto, si svolge come un graduale processo di disvelamento, di emersione di un soggetto che in realtà è già presente, un processo che finisce per coinvolgere gli autori stessi fino a spingerli a mettersi in discussione. E questo vale soprattutto nel caso di un personaggio come quello sul quale sono stati al lavoro i tre autori di Dov’è la Vittoria, che dopo diversi studi con cui il lavoro ha anche già ricevuto dei riconoscimenti, debutta a Napoli nell’ambito del Campania Teatro Festival diretto da Ruggero Cappuccio il 12 giugno (alle 21.00), proprio nel giorno in cui il festival spalanca le sue porte; la location, il Giardino Paesaggistico di Porta Miano situato all’interno del bellissimo Real Bosco di Capodimonte. Il personaggio in questione è Vittoria: leader di una formazione politica di estrema destra che si candida a diventare la prima donna a ricoprire l’incarico di Presidente del Consiglio. Evidente il riferimento all’attualità politica. Dov’è la vittoria ha anche i tratti dell’inchiesta: tre attori – Luigi Bignone, Martina Carpino, Manuel Severino – vengono fotografati nel bel mezzo di un processo creativo, e in questo risalgono all’infanzia della protagonista, alla sua famiglia e al suo quartiere, agli anni della scuola e della militanza giovanile, per scoprire le ragioni che l’hanno spinta lungo il suo percorso di affermazione. Il personaggio cresce, emerge e si afferma con sempre maggiore forza, fino a schiacciare i maschi comprimari e gli stessi attori, in un’alternanza tra momenti di vera e propria messa in scena e fasi di confronto tra gli attori che finiscono per fondersi nell’inquietante finale. Nell’opera sembra che la realtà sociale e politica, da oggetto di un’indagine teatrale si trasformi in soggetto, finendo per plasmare l’indagine stessa. Di tutto questo abbiamo parlato con gli autori Agnese Ferro, Giuseppe Maria Martino e Dario Postiglione.

La costruzione di un personaggio spinge chi scrive ad empatizzare con le sue ragioni e a fare i conti con le proprie di idee, soprattutto nel caso di un soggetto dai forti tratti negativi. Il dispositivo del metateatro introduce un livello in più, quello dei tre personaggi attori/autori che lavorano sul personaggio Vittoria. Questo ha funzionato come una sorta di filtro tra gli autori di Dov’è la Vittoria e il personaggio stesso, un mezzo per mettere distanza tra lei e le vostre intenzioni?

Agnese Ferro: L’espediente del metateatro permette di compiere il processo inverso a quello della costruzione del personaggio politico, di risalire alla storia personale per cercare un’identità ripulita dallo storytelling e dalla retorica politica. Forse gli attori sono uno strumento per mostrare i nostri interrogativi e il nostro disorientamento rispetto alla politica attuale.

Giuseppe Maria Martino: Sì, le intenzioni del dispositivo metateatrale sono dettate dalla volontà di trovare uno spazio nella drammaturgia dove la necessità degli autori di empatizzare con il proprio personaggio sia anche messa in discussione, diventi motivo di crisi attraverso il lavoro di analisi che affronta chi è chiamato alla creazione. Un filtro, insomma, per mettere distanza tra la nostra necessità cogente di parlare di certi temi e il lavoro di immersione e sospensione del giudizio a cui è chiamato chi scrive. Non tanto per distanziare noi da lei – per quello basta che ognuno continui ad essere quello che è – quanto per lavorare a carte scoperte sull’idea di meta-commento, di un teatro che ponga domande impellenti e faccia emergere questioni necessarie.

Dario Postiglione: Da autore non ho alcun timore a empatizzare col male individuale, ad ammetterne il piacere e a esplorarne il senso metafisico. E non dico che tifo per Vittoria, ma riconosco il suo potere. So che nella realtà quel potere potrebbe annientarmi, ma non di meno sono costretto a guardarlo in faccia, e invitato a parteciparvi. Coi mezzi miei, ovviamente: che sono parole, fantasmi. Sugli attori invece pesa una domanda di ordine etico-estetico: che ne è della satira nel momento in cui il reale scavalca l’immaginario e l’immaginario arriva a plasmare il reale? Nel momento in cui un vuoto ideologico – ecco un fantasma – infesta la struttura del politico? Quindi se c’è un giudizio, è sugli attori, se c’è una critica è ai fantasmi dell’arte. Vittoria intanto vince, ha già vinto.

L’opera si ispira all’attualità politica, e dunque a fatti per natura “collettivi”, che riguardano idee e comunità di persone. Ma nella messa in scena della costruzione del personaggio e della ricerca delle sue motivazioni, emerge il racconto di un fatto personale. Cosa ci sta dicendo quest’opera, ed in generale il teatro, visto che è attraverso il teatro che viene indagata la costruzione della sua leadership, che la natura stessa della leadership è scollegata da ragioni politiche ed è solo pura affermazione personale?

Agnese Ferro: Quello di Vittoria è un percorso di sclerotizzazione degli ideali, che finiscono per lasciare il posto alla mera affermazione personale. È un percorso che parte dal sentimento illusorio di appartenenza a una collettività per approdare alla forma più arrivista di individualismo. Esistono altri modi per affermarsi nella nostra società? L’interrogativo resta aperto.

Giuseppe Maria Martino: Il politico riguarda la collettività, sì, ma una collettività intesa come insieme di individui. In questo senso ogni leadership è prima di tutto leadership di uno o più individui, scollegata da ragioni puramente politiche e sempre legata a bisogni e desideri di determinati gruppi o personalità. Con questo non intendo dire che l’affermazione personale sia la ragione immediata di certe scelte politiche, ma solo che senza un motore, una mancanza, un desiderio, non è pensabile che ci siano “ragioni politiche”. Più che altro la drammaturgia si pone l’obiettivo di far emergere come le esigenze della politica siano cambiate, ragionando su un nuovo tipo di leadership mediatica, al contempo pubblica e personalissima.

Dario Postiglione: Il fatto personale che sta all’origine della costruzione di Vittoria è in realtà molto banale, volutamente melodrammatico, da operetta. Ma è anche la premessa di un’allegoria: il cuore spezzato, il cuore offerto in sacrificio a un dio pagano, il cuore come strumento di governo, il cuore nero da rifare all’Europa. Nell’ordine dei significati, il trauma personale diventa un trauma collettivo. La dissoluzione della cultura collettiva che viviamo oggi va a braccetto con un fenomeno di lunga data: l’espansione e l’intensificazione dell’individualismo moderno. L’affermazione personale è il fondamento della struttura sociale, è il cuore pulsante della logica tardo-capitalista. Dunque un motore politico. Sullo sfondo di un’ideologia nera che torna in voga, raccontare una vicenda personale significa mettere al centro la struttura sociale che oggi consente questo ritorno – una struttura che ha molto a che fare con l’immaginario e i fantasmi.

Martina Carpino in “Dov’è la Vittoria”,  produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale | Casa del Contemporaneo

Quella di Vittoria è una leadership che viene dalla parte politica più legata alla visione tradizionale della donna, storicamente lontana da idee egualitaristiche. Tuttavia, ne assume la guida senza rinnegare le idee del passato. Come scritto nel testo, lei “non vuole abbattere il patriarcato, lo vuole incarnare”, e anzi assume su di sé i canoni, persino estetici, della leadership classica così come imposti dalla società maschilista. Insomma, la sua è davvero una leadership “femminile”?

Giuseppe Maria Martino: Femminile sì, femminista no. È proprio questo il punto: Vittoria, come altre donne di potere della scena politica europea contemporanea, non è certo una leader che lotta per l’emancipazione delle donne come noi la intendiamo. O meglio, lei riconosce alle donne diritti e rivendicazioni solo entro i limiti di ruolo che il patriarcato consente – ma ogni regola ha bisogno di eccezioni per essere confermata, e lei è un’eccezione ben normativizzata che tutela la regola.

Agnese Ferro: La leadership di Vittoria ha le caratteristiche del pastiche, così come l’elettorato al quale si rivolge. In un’epoca in cui sono evaporate le classi sociali, nessuno si riconosce ciecamente in un’ideologia, ma tutti vogliono vedere riconosciute le proprie specificità – anche il nostalgico del fascismo ha la figlia che va all’università e quindi non ha problemi a votare un leader donna. Una donna assertiva e rassicurante naturalmente, una sorta di essere mitologico: la donna con gli attributi, che da un lato richiama l’iconografia mariana, dall’altro la mascella nerboruta del capo. Un patchwork attualissimo in un paese in cui le donne sono costrette ad essere sole e trine, a lavorare come uomini, a essere compagne degli uomini, a portare avanti la specie senza il beneficio di un asilo nido.

Dario Postiglione: non credo che ai vertici della struttura di dominio interessi davvero la distinzione tra generi. Certo il patriarcato è una delle massime forme in cui si è espresso storicamente il dominio. Forse questo sta cambiando, il patriarcato sta esaurendo le sue forze, ma continua a infestare la struttura sociale, le presta un po’ di forma mentre se ne prepara un’altra. Il risultato è un patchwork, appunto, una specie un po’ vecchia e un po’ nuova di animale politico, che pesca indiscriminatamente dal progressismo, dall’antagonismo, dal femminismo per costruire la propria immagine.

Dov’è la Vittoria è un testo fluido, da lavori in corso, e alcune parti sono volutamente scritte in forma abbozzata. Il tema al centro dell’opera, la costruzione del personaggio di Vittoria, è in costante divenire. Questo lo rende soggetto a possibili cambiamenti, evoluzioni di volta in volta più o meno diverse dalla precedente messa in scena?

Giuseppe Maria Martino: Assolutamente sì. Il collettivo BEstand lavora da tempo su pratiche di scrittura scenica. Il nostro è prima di tutto un teatro dell’accadimento presente, che parla alle viscere di chi c’è. In particolare Vittoria è stata un’occasione per sperimentare a più mani una struttura metateatrale, per giocare a dilatare la funzione della parabasiovvero il momento in cui l’attore della commedia attica si toglie la maschera e si rivolge direttamente al pubblico, e indagare frontalmente qualcosa di assolutamente attuale, ancora inafferrabile e in costante divenire.

Agnese Ferro: Sì, è il testo stesso che si presta a mutare. E in effetti è già cambiato varie volte prima del debutto, dato che è stato scritto quando lo scenario politico era diverso. In un certo senso, un testo che poteva avere qualche velleità profetica è diventato quasi cronachistico.

Dario Postiglione: Lo spettacolo è stato pensato con una struttura drammaturgica in partenza rigida e lineare, che si alterna però – nelle scene degli attori – ad ampie zone di libertà, si apre a spazi di creazione collettiva, all’imprevisto. Dunque sì, è uno spettacolo che si evolve, cambia pelle, aggiunge strati a ogni messa in scena – ed è questo elemento di ricerca costante che lo conserva vivo per noi.

In che modo, sui tre attori, influiscono le vicende esterne che stiamo vivendo? In altre parole, è possibile con il teatro portare avanti l’indagine sui cambiamenti in atto nella nostra società, attraverso lo studio di un personaggio come questo, così legato all’attualità che, anche a causa della pandemia, sta subendo un’accelerazione tale che fatichiamo persino a vedere?

Dario Postiglione: La prima versione di Dov’è la Vittoria è stata scritta ormai tre anni fa. All’epoca credevamo di intercettare un fenomeno politico significativo ma tutto sommato marginale, temevamo che il testo – e il modello reale a cui si ispira – passassero presto di moda, o al contrario che l’eventualità di vedere una Vittoria alla guida del governo fosse un paradosso, una possibilità lontana. Oggi, malgrado (o forse “in virtù di”) questa strana accelerazione quantistica che stiamo sperimentando, Vittoria ci fiata sul collo. Io credo che l’attualità dell’arte sia questione di sguardo più che di temi: e uno sguardo strabico, obliquo, che abbia un filtro ottico, uno sguardo inattuale perfino, può essere a volte più valido a intercettare i fenomeni in evoluzione rispetto a uno sguardo tutto focalizzato sul presente.

Agnese Ferro: La crisi delle ideologie ci pone sicuramente di fronte a un cambio di paradigma che porta a scenari fino a pochi anni fa inimmaginabili. Per chi come me è nata negli anni ’90, scenari simili risultano di difficile comprensione. Sono cresciuta in ambienti in cui l’ideologia di sinistra era ancora radicata e vitale, le persone che mi circondavano avevano vissuto in prima persona le battaglie della sinistra che rispondevano a esigenze e urgenze reali. In qualche modo, la mia visione non è scevra da questa influenza. Purtroppo mi sembra che la sinistra di oggi viva della rendita del vecchio elettorato senza cogliere i cambiamenti profondi e le nuove esigenze che muovono le persone. Vittoria al contrario è camaleontica, ingloba tutto dandone una nuova narrazione; in un’epoca in cui l’elettorato non è più un popolo che concretamente si incontra e partecipa alla vita civile, questo diventa possibile. Vista la superficialità che spesso connota il dibattito sui social e in televisione, penso che il teatro possa essere uno spazio in cui smascherare un po’ della retorica da cui veniamo bombardati.

Giuseppe Maria Martino: Gli attori vivono il nostro tempo, sono in scena sempre davanti a un pubblico di osservatori vivi e questo li rende, come tutti, influenzati dalle vicende contemporanee. Il teatro funge così da dispositivo di indagine del tempo presente. Un tempo che sta subendo un cambiamento radicale e irreversibile, che ci vede implicati, ci chiama in causa, ci invita a pensare nuove soluzioni per vivere, a chiederci come sarà la fine e se ci sarà un nuovo inizio. In quest’ottica, lontani dal punto di vista dello storico, gli artisti si assumono la responsabilità di interpretare il presente e proporne una versione leggibile al pubblico.



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