Arti Performative Focus

VIE Festival 2019 // La verità è un “puppet” – parte II

Andrea Zangari

Mentre la politica dibatte appassionatamente della Nuova Via della Seta, una più sottile via per l’Oriente l’ha tracciata la quattordicesima edizione del VIE Festival di ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione. Nel programma di mapping del contemporaneo, perorato con stimolante eterogeneità, la cultura teatrale cinese e giapponese è stata menzionata nel segno culturalmente trasversale del puppet.

Yeung Faï, maestro di fama mondiale nel genere, ha portato sulla scena del Teatro Dadà di Castelfranco Emilia (MO), un divertissement a misura di saggio. The puppet-show man è una rivista di piccole narrazioni che ha carezzato lo sguardo del pubblico, corroborandone il bisogno di sospensione dell’incredulità. Un momento fiabesco nel cartellone di un’edizione che promuove una ricca indagine sul confine della rappresentabilità e dello statuto della finzione. L’opera di Yeung Faï evoca radicalmente e didascalicamente la dimensione dell’abbandono al racconto, prendendo le mosse dalla fascinazione che il corpo ligneo di un burattino produce ipso facto nell’osservatore. All’ingresso in sala ci è regalato qualche minuto per osservare un’edicoletta in bambù. Un teatrino-nel-teatro la cui sagoma risulta in parte esotica, per il suo disegno scarno, simile all’intelaiatura d’un trabocco, in parte riconoscibilissima nel richiamarsi a quell’armamentario da attore del teatro di figura, che tutti abbiamo contemplato, con incanto, in gioventù. Faï entra nel suo teatrino dal di fuori, ovvero dallo stesso spazio che il pubblico occupa, denunciando così la propria alterità rispetto ai burattini che manovra con inappuntabile maestria. La sua progressiva esplorazione del chiosco accompagna così l’ingresso dello sguardo in un microcosmo che rimane sospeso sul confine noto-ignoto, visibile-invisibile. Il corpo del burattinaio non si eclissa mai dietro il velo, resta con noi. Intanto, un monaco lotta con una tigre, una coppia di ricchi coniugi intessono una spassosa schermaglia amorosa, due giovani combattono in punta di lancia. Lo stesso Faï è messo al tappeto da un suo burattino guerriero: nell’ilarità del frammento si inscrive la biografia dell’artista, la complessità del rapporto fra il corpo del performer e la protesi per eccellenza che è il puppet, marionetta o burattino che sia. Figlio della damnatio memoriae della Rivoluzione Culturale maoista, Faï ha esercitato la sua arte sin dall’infanzia, portando avanti una tradizione e un destino famigliari. The puppet-show man è, così, una raffinata antologia e una delicata confessione.

“A Bergman Affair”. Foto di Guido Mencari

A pochi chilometri e nelle stesse ore, sul palco del Teatro delle Passioni di Modena, la compagnia italo-francese The Wild Donkeys, alias Olivia Corsini e Serge Nicolaï, scandagliava l’universo bergmaniano delle Conversazioni private evocando come strumento introspettivo e performativo la prassi del Bunraku, tradizione giapponese delle marionette. Si tratta in tal caso di figure a scala più grande, quasi umana, in cui l’attore è un manipolatore che accompagna l’oggetto inanimato quasi sdoppiando la sua figura. Corsini-Nicolaï colgono questa suggestione di scala facendo dell’attore stesso, a tratti, una figura analoga. A Bergman Affair è uno spettacolo d’impianto solido, evocante l’atmosfera austera delle scene bergmaniane. Un esempio di drammaturgia critica «innamorata della letteratura», come ha dichiarato Claudio Longhi, studioso, oltre che direttore artistico del VIE Festival. Un teatro dunque solidamente di parola, che rigetta ogni arbitrario allontanamento dalla densità psicologica del testo, e che definisce i personaggi stanislavskijanamente. Anne, un’intensa Olivia Corsini, è la tipica anti-eroina bergmaniana: dimidiata tra la vita coniugale e l’amore adolescenziale per uno studente di teologia. Il marito di Anne, l’altrettanto vivido Stephen Szekely, è un pastore protestante. Altro personaggio chiave del dramma, la guida spirituale della coppia: il “super-io” della religione divarica e approfondisce la voragine psichica in cui gli affilati strumenti recitativi sprofondano l’uditorio. Uno dei cinque attori in scena, lo stesso regista Serge Nicolaï, non prende mai la parola, guida a tratti i gesti di Anne e del marito, da tergo, come, appunto, un artista del Bunraku. Sono i frangenti in cui il tormento interiore prende la forma di un automaton, di un movimento che piove dall’alto di una verità incomunicabile ma insopprimibile. Se realtà è in larga misura una parola-chiave di questa edizione del festival, A Bergman Affair evoca il riflesso etico della verità. «On ne peut pas faire violence à la vérité sans que ça tourne mal», scrive il marito di Anne sul fondale, appena messo al corrente del tradimento. Ma la verità non riesce a farsi luce: siamo in un teatro dell’ombra, che riduce il palcoscenico a uno spazio minuscolo e scolorito, ben commentato da un disegno luci che anatomizza la gestualità millimetrica e tagliente dell’ineccepibile cast. L’arte nipponica del Bunraku echeggia anche in questa tavolozza laconica, in una scala di grigi scenografica ed emotiva.

Percorrere la via Emilia fra questi due lavori, The puppet-show man e A Bergman Affair, ha restituito un sapore esperienziale forse non avulso dagli intenti del direttore di ERT: una contrazione geografica e temporale, una piega delle mappe culturali cristallizzate nel nostro essere-occidentali che determina un suggestivo quanto effimero overlapping coscienziale. Così, per un attimo, l’esistenzialismo di Bergman migra dai volti degli attori-feticcio cui il regista svedese ci ha abituati, prendendo nella memoria dello spettatore le vesti sgargianti e fiabesche del teatro di figura cinese. Una eco che unisce gli scarni interni scandinavi con gli stereotipi popolari di una Cina senza tempo e, dunque, senza confini; questa non attiene certamente all’essenza del singolo spettacolo, ma è, piuttosto, il frutto irripetibile dell’esperienza – diciamo così – festivaliera. La partecipazione immersiva a una kermesse cosmopolita assicura esiti inattesi: i parametri critici con cui si approccia il singolo prodotto possono essere messi in crisi da quel dialogo involontario, talora inconscio, che intrattengono compagnie, registi, attori e spettatori convenuti in un’unità spazio-temporale irripetibile. Sono gli spazi bianchi del cartellone, quelli fra un titolo e l’altro, i minuti e i chilometri fra Modena e Castelfranco come quelli fra Cesena e Bologna, a portare quel “di più” di vita [per approfondire, leggi anche VIE Festival 2019 // La sincerità del racconto, l’artificio del raccontare – parte I] che valorizza uno sforzo organizzativo metaforicamente e concretamente poliglotta. Se, infatti, la lingua mondialista è l’inglese, il teatro continua ad essere – VIE Festival lo dimostra – un campo in cui il confronto porta a contaminazioni moltiplicatorie, in cui la “tendenza” egemone si piega di buon grado agli sguardi periferici, ricordando che non esiste “centro”, e che ogni orizzonte è relativo. 

 

[Immagine di copertina: “The puppet-show man”. Foto di Kalimba M]

 



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