Arti Performative Mutaverso Teatro

Trasversale, radicato nell’immaginario collettivo, midcult, anti-elitario: il punto di vista di Sotterraneo, in scena con “BE NORMAL!” a Mutaverso Teatro

Franco Cappuccio

È quasi una prima volta per i Sotterraneo in Campania quella di domani sera all’Auditorium Centro Sociale di Salerno nell’ambito della stagione Mutaverso Teatro, di cui Scene Contemporanee è orgogliosamente media partner; l’unica altra apparizione della compagnia toscana risale infatti al 2009, inserita da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari del Teatro delle Albe all’interno della programmazione del progetto Punta Corsara a Scampia (che diede poi vita all’omonima compagnia, tuttora molto attiva) che quell’anno, e quello successivo, avrebbe visto una stagione teatrale molto interessante all’Auditorium situato nel difficile quartiere periferico napoletano. Nello specifico, i Sotterraneo, che allora si chiamavano ancora Teatro Sotterraneo, vennero inseriti in una sezione a parte della programmazione dedicata a giovani compagnie e chiamata “Aria di Tempesta”, che comprendeva formazioni teatrali oggi molto note ed apprezzate come i Muta Imago, Cosmesi, Fibre Parallele, Menoventi. Da allora, di acqua sotto i ponti ne è passata e i Sotterraneo hanno sviluppato con grande successo la loro poetica artistica, anche grazie all’opera di istituzioni che hanno valorizzato il loro lavoro, in particolare Centrale Fies a Dro (TN) e, più recentemente, l’Associazione Teatrale Pistoiese nel capoluogo di provincia toscano, facendosi conoscere ed apprezzare anche all’estero, come ci testimoniano alcune collaborazioni, tra cui il Be Festival a Birmingham. Per questo, l’arrivo dei Sotterraneo in Campania ha il sapore un po’ della riscoperta sul territorio regionale, e per prepararci a questo evento abbiamo deciso di scambiare due chiacchiere con uno dei membri della compagnia, ovvero Daniele Villa, partendo proprio dallo spettacolo BE NORMAL! che verrà ospitato domani a Salerno.

“BE NORMAL!”. Foto di Andrea Pizzalis

Dopo esservi interrogati sull’origine e sulla fine della specie, all’inizio di questo decennio avete deciso di orientare la vostra ricerca artistica sul concetto di daimon, dando così origine a due lavori a suo modo complementari, ovvero Be Normal! e Be Legend!. Da cos’è nata questa esigenza artistica e qual è il rapporto tra i due lavori?

BE NORMAL! fa parte del Daimon Project, uno studio di circa tre anni sul tema della vocazione da Socrate a Hillman, della predisposizione naturale, della realizzazione di sé, articolato su più formati. BE LEGEND! racconta (reinventa) l’infanzia di alcuni personaggi celebri e d’immaginario (Amleto, Giovanna d’Arco, Adolf Hitler); BE NORMAL! racconta il quotidiano di adulti anonimi, persone qualunque. BE READY! è un ciclo di laboratori per adolescenti che pone al centro i teenager proprio nella fase in cui le inclinazioni si manifestano e si scontrano col mondo circostante. È una linea di ricerca vasta che ci ha permesso di approfondire un tema che sentivamo con urgenza: il rapporto fra vocazione e scelte di vita, ma anche fra aspirazioni, possibilità effettive e fallimento. Tutte questioni molto sentite dalla nostra generazione, ma che in fondo riguardano la prospettiva futura di tutti. I titoli riecheggiano il tono perentorio delle campagne di marketing (celebre fra queste la campagna “be stupid” di Diesel) che in chiave ironica per noi rappresenta più che altro un pensiero sull’imperativo interiore, quello che il tuo daimon – l’angelo guida descritto da Hillman – ti obbliga a diventare, anche a costo di spingerti all’autodistruzione. Ci auguriamo che vedere questo spettacolo significhi sentir riverberare in sé la questione del daimon e dell’impiego della propria breve e infinitesimale vita – come dice Jung – o realizziamo noi stessi o la vita è sprecata.

Anche qui in Be Normal!, come in molti altri vostri lavori, lo spettacolo – pur mantenendo una ovviamente una coesione d’insieme – è strutturato in tanti micro-episodi. Questa frammentazione dell’oggetto scenico riflette nella vostra poetica la frammentazione della società a cui guardate, rendendo questo l’unico modo per poterne parlare in maniera efficace?

Con Agamben, pensiamo che essere contemporanei significhi in buona sostanza essere figli del proprio tempo senza aderirvi – il che poi ti permette il distacco necessario a osservare il tuo tempo, analizzarlo, smontarlo, criticarlo e cantarlo. Quindi sì, probabilmente la struttura episodica, frammentaria, ipertestuale dei nostri lavori riflette i codici in cui siamo immersi (sin dallo zapping televisivo delle nostre infanzie) ed è al tempo stesso una strategia compositiva con cui cerchiamo di surfare senza limitarci a stare sempre e soltanto sulla superficie delle cose. In ogni caso ci piace comporre opere che facciano continuamente dei “salti”: di fuoco tematico, di tono, di codice formale – questo approccio ci permette di ruotare il punto di vista sulle questione che analizziamo, di utilizzare in modo personale l’immaginario collettivo e lasciare dei vuoti, delle “crepe” fra una scena e l’altra, che permettono allo spettatore di interpretare le cose, cercare collegamenti, coltivare il dubbio e prendere posizione rispetto a ciò che vede, che è poi l’esercizio di cittadinanza che noi consideriamo vitale per il teatro. 

Allo stesso modo, la cifra del grottesco, dell’esagerazione e del prendere a piene mani dalla cultura pop o post-pop in un certo senso ha facilitato l’avvicinamento di un pubblico non abituato ad andare a teatro, e a maggior ragione quello più performativo o comunque non basato sui “grandi classici”. Nella vostra ricerca artistica credete sia anche un modo per lavorare sull’audience engagement, veicolando il vostro messaggio e la vostra poetica artistica, quello di portare l’astrazione su livelli più comprensibili?

Quando parliamo di “strategia” per noi è sempre una questione esclusivamente artistica, poetica, compositiva. Il rapporto col pubblico invece deve funzionare in modo del tutto onesto: noi ipotizziamo di avere delle cose da dire e le diciamo nel modo in cui pensiamo vadano dette – il fatto che passino dall’altra parte e tocchino le corde di un pubblico è cruciale, ma deve accadere senza sotterfugi o facilitazioni. Diciamo che il nostro approccio alle cose, il nostro punto di vista sul mondo è di per sé trasversale, radicato nell’immaginario collettivo, midcult, anti-elitario, e quindi l’engagement è nel DNA di quello che facciamo, per questo non dobbiamo “far funzionare” il nostro linguaggio. Di solito creiamo spettacoli che sono stratificati, hanno quindi diversi livelli d’accesso e posso essere fruiti anche da chi non è un ultras della ricerca teatrale. E il nucleo pulsante dell’onestà di rapporto col pubblico sta nel fatto che proponiamo opere aperte, dove spesso assumiamo posizioni discutibili e dove non trova spazio il “messaggio” inteso in senso pedagogico. Riguardo a questo citiamo sempre Ionesco, che diceva: «non ci sono messaggi nel mio teatro, non sono un postino». 

Foto di Emiliano Pona

Arrivate in Campania dopo anni di successi ed apprezzamenti sia in Italia che all’estero, a distanza di quasi dieci anni dalla vostra unica altra volta, all’interno di un progetto speciale su Scampia promosso dal Ministero con la direzione del Teatro delle Albe, una compagnia non campana ma romagnola, immersa in un tessuto culturale sicuramente più fertile per la permeazione del contemporaneo. Trovate ancora difficile – nonostante tutto il vostro percorso – avere una distribuzione più capillare? Quale pensate possano essere le ragioni?

Risposta alla prima domanda: sì, assolutamente sì. Per la risposta alla seconda domanda ci vorrebbe un blog apposta, quindi per non annoiare i lettori ci limiteremo a mettere sul tavolo dei problemi/nodi irrisolti: la struttura intrinsecamente rigida del sistema teatrale italiano, l’atavica italica incapacità di far spazio alla contemporaneità in tutte le sue accezioni, la difficoltà di tutelare le risorse pubbliche per il teatro e la loro iniqua distribuzione nel sistema, la mancanza di un investimento educativo (scolastico e non solo) nella cultura teatrale e quindi nell’abituare le persone a inserire il teatro nella loro dieta culturale – appunto il cosiddetto audience engagement/development, la resistenza degli artisti a sporcarsi le mani con mezzi e linguaggi che possano riportare il teatro nella vita delle persone, la difficile competizione di un medium millenario con la rivoluzione digitale… ecco, come prima lista ci fermeremmo qui. Certo questo riguarda tutti. Poi ci sta anche che un nostro spettacolo non giri perché non piace, è sempre bene tenere presente la possibilità di una caduta. 

Siete toscani ma lavorate a stretto contatto con una realtà importante in Italia come Centrale Fies in Trentino, con cui avete fatto parte anche del progetto Fies Factory. Il fatto di avere un centro di produzione che in qualche modo vi ha seguito passo dopo passo nel vostro percorso di crescita e sviluppo artistico – cosa molto rara per il nostro paese – quanto ha cambiato il vostro modo di lavorare e di concentrarvi sulla vostra ricerca e poetica?

Siamo “maledetti Toscani” e infatti siamo sì residenti a Centrale Fies nel progetto Fies Factory, ma anche a Pistoia negli spazi di Associazione Teatrale Pistoiese. A Centrale Fies va il merito di aver investito su gruppi giovanissimi sin da subito, nel nostro caso eravamo appena usciti dal Premio Scenario (2005). Fies per noi ha significato un sostegno materiale (produzione, spazio prove, assistenza tecnica) e immateriale (sguardo critico, comunicazione pubblica, visibilità) – un aiuto di valore inestimabile, ma è bene sottolineare che quello che Fies ha fatto agli inizi è stato spronare anzitutto la crescita di certi artisti, sostenerli non tanto per proteggerli quando per metterli in condizione di rafforzare il progetto e maturare dal punto di vista artistico e progettuale. Tant’è vero che il rapporto fra Centrale Fies e i gruppi della Factory attuale (Anagoor, Marta Cuscunà, Sotterraneo) è paritario, basato sulla condivisione di progetti e prospettive per il futuro delle live art in Italia e Europa. Oggi, come dieci anni fa, la Factory è per Fies un modo per portare avanti un discorso sui linguaggi, sulla sperimentazione, sul cambiamento, sulla possibilità di bucare la resistenza delle istituzioni e dell’immaginario collettivo rispetto a un certo tipo di proposta artistica – per questo siamo ancora insieme, perché c’è ancora molto lavoro da fare in questo senso, la Factory non è nata come luogo incubatore ma come luogo di simbiosi e ricerca. C’è da registrare che negli ultimi anni anche altre strutture hanno praticato le stesse scelte, come ad esempio la stessa Associazione Teatrale Pistoiese, pur nelle differenze di poetica, sensibilità e scelte artistiche. Del resto il punto non è offrire un’alternativa al teatro tradizionale che sia conforme, ma piuttosto favorire la biodiversità poetica e far sì che a ogni latitudine del paese e del continente il pubblico possa trovare linguaggi difformi, dinamici, imprevisti ma necessari.



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