Arti Performative

ToBorNot. Il training fisico e vocale di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa

Chiara Nicolanti

 

Qualche anno fa ho avuto il piacere di incontrare a VolterraTeatro Festival la compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, tornati durante la scorsa stagione del Teatro Vascello a Roma, con lo spettacolo Edipo Re.

Raccontare il loro modo di recitare in poche righe, per chi non li ha mai visti sul palcoscenico, sarebbe riduttivo, ma se volessimo collocarli in uno dei filoni novecenteschi, potremmo vederli come figli tardivi di Brecht e del teatro inteso come arma sociale (Alain Badiou parlava del teatro di Brecht come terapia contro la vigliaccheria nei confronti della verità).

Esprimere razionalmente un’idea, un messaggio, tramite l’espressività di un corpo che si fa sillaba di una parola che si completa nel corpo degli altri: l’interprete nei Marcido è essenziale in quanto parte del tutto, non in quanto essere unico.

Ma come si raggiunge tale espressività?

Le lunghe mani che Maria Luisa Abate ci consegna, a noi, una decina di giovani allievi seduti a gambe incrociate, dispersi in una sala del palazzo comunale di Volterra, con il caldo dell’estate e la stanchezza accumulata in giorni folli di training e spettacoli, sembrano pesantissime, inutilizzabili. Sono fatte di legno, non di plastica come ci saremmo aspettati guardando le foto. E sono disegnate davvero, non stampate, ma dipinte sul legno. Abbiamo imparato le prime battute della lettera che Lady Macbeth riceve dal suo sposo lontano, abbiamo riscritto, puntato, letto, memorizzato, cantato, urlato, mimato e pensato quelle parole, le abbiamo svuotate, accartocciate, maltrattate e infine dimenticate. Ed ora, di spalle gli uni agli altri, dobbiamo farle recitare a due pezzi di legno intagliati. Imparo così che la forza di un oggetto inanimato è data dall’intensità con cui io voglio che si muova. Imparo che il vero problema non è un gap espressivo, ma la volontà di uscire fuori di sé, smettere di essere in noi ed entrare in sintonia, in vibrazione con l’oggetto. Per impararlo dovevamo fallire, posare a terra quelle mani giganti, con le spalle indolenzite e i crampi alle braccia, sospendere il nostro esperimento con la promessa di ripassare più tardi, e cominciare a picchiare le nostre mani rattrappite sulla pelle di vecchi tamburi. Il solo modo di farli davvero suonare è far vibrare il battente: arrivare già vibrando e immettere quella vibrazione nell’oggetto. Ogni materiale ha la sua vibrazione, bisogna avere la pazienza e l’ascolto per imparare a riconoscerla ed entrare in sintonia con essa, come fanno i bravi burattinai. E allora il corpo saprà trasformare quegli oggetti da prolungamenti a protesi di se stesso.

Il training si esperisce solo all’interno della compagnia, secondo un modello che si rifà alla storia del teatro quasi come una bottega dove imparare. I Marcido Marcidorjs non tengono corsi, non hanno scuole, credono nella capacità della scena di fissare le competenze. Le prove sono essenziali, sotto questo punto di vista: recitare tutti i giorni è l’unico modo per acquisire quella scioltezza, quella naturalezza che si può osservare nei grandi, che si poteva osservare in De Filippo per esempio, e in tutti quegli artisti della scena che non tralasciavano la recitazione intesa come mestiere.

Nella loro compagnia, durante le prove, il regista, il poeta, recita per primo la battuta, l’attore ripete: basterebbe questo, il training nasce per colmare delle mancanze, delle impossibilità nell’espressività. Quello che il regista chiede all’interprete è, per l’appunto, di interpretare, di esprimere, di dar vita alla sua poesia.

In caso di mancanza si entra nel training. Anche per la compagnia torinese esso si divide in fisico e vocale, con particolare attenzione a questo secondo punto, messo spesso da parte in altre realtà: la battitura testuale è fondamentale nei loro spettacoli, gli esercizi preparatori ad una tale precisione vertono sullo smontaggio e rimontaggio del linguaggio, tramite una scomposizione sillabica e un’attenzione alle vocali molto vicina al canto.

Esercizi tecnici, precisione a tratti maniacale, ma come sottolinea Maria Luisa: «Il training vero non è la tecnica, ma qualcosa di profondamente esistenziale». Qualsiasi interprete, per essere tale, deve prima sapere se ha qualcosa da dire, solo le modalità di espressione si possono esplorare nella ricerca, nell’attraversamento della tecnica.

Il suo consiglio per i giovani attori è quello di trovare un maestro, o almeno, una compagnia, più che una scuola. Perché in una compagnia l’attore serve alla scena, e serve la scena. Le sue potenzialità espressive verranno, per forza di necessità, stimolate.

Sapere che cosa dire, be’, quella è un’altra storia.

La storia di questa compagnia è quella di attori che hanno scelto di farsi interpreti di un’ideologia, di una visione del mondo, che è quella di Marco Isidori. Sono scesi in campo quasi trent’anni fa, e lì sono rimasti, sempre.

Qualunque sia la vostra visione del mondo, quale che sia il vostro messaggio, Maria Luisa ricorda: «Quando c’è davvero spettacolo, lo spettatore deve uscire dalla sala diverso da come ci è entrato. Non importa come, ma deve essere diverso, altrimenti non c’è teatro».



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