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“Il teatro dovrebbe tendere verso l’educazione sentimentale”. Intervista all’attore, autore e regista Giuseppe Tantillo

Chiara Nicolanti

In scena ancora fino a domani a Roma al Teatro Argot c’è Senza glutine, il secondo spettacolo scritto e diretto da Giuseppe Tantillo, un attore appassionato, dalla voce leggera e le idee chiare, un filantropo, che ci ha parlato di un teatro giovane, in rimonta. Un teatro capace, ancora, di raccontare l’essere umano, nelle sue debolezze e sfaccettature, ma, soprattutto, nella sua bellezza imperfetta.

Parliamo prima del Giuseppe attore, della tua formazione. Cosa hai trovato in accademia che ti ha particolarmente aiutato come attore? Quali sono gli input che più ti sono serviti?

L’Accademia ha come idea quella di far conoscere più metodi possibili, in modo che poi l’attore possa scegliere liberamente quello che gli si addice di più. Quindi non c’è un metodo unitario. Io credo che questa sia una buona strada, nel senso che non credo nelle “chiese”, cioè nella convinzione che ci sia un solo metodo per arrivare a qualcosa. Personalmente, ho trovato particolarmente utile l’approccio col metodo Meisner, insegnato dal bravissimo Massimiliano Farau, forse l’insegnante di recitazione migliore che abbia mai incontrato. Diciamo che è stato il miglior stimolo che ho incontrato, anche se poi credo che il proprio metodo uno se lo fa da solo. Prova, e pian piano crea la propria voce, la propria idea, l’unica da seguire fino in fondo. Per me è fondamentale la lettura. Il miglior manuale di recitazione che ho letto in vita mia è stato Il giovane Holden, perché è talmente un libro pieno di stimoli sentimentali… per me è davvero un libro fondamentale. L’attore dovrebbe essere un lettore di professione secondo me: leggere stimola la fantasia in una maniera particolare. Quindi direi che è stata la mia formazione in campo letterario, teatrale, cinematografico, che ha pian piano creato la mia “idea”.

Ci sono personaggi nella tua carriera, teatrale e non, che ti hanno influenzato, o fatto crescere, in maniera particolare?

Te ne dico due. Uno è un personaggio del film di Stefano Tummolini, L’estate sta finendo (2013), che è stato anche in concorso al Festival del Cinema di Pesaro. Si tratta di un personaggio molto particolare, perché era un post-adolescente che non riusciva ad interagire con gli altri, a farsi accettare. Interpretarlo è stato molto interessante, perché ho dovuto lavorare contro la vanità, che è una cosa che spesso viene considerata negativamente, a torto secondo me: per un attore soprattutto, essere vanitoso è un valore. Nello studio di questo personaggio ho dovuto lavorarci contro, andando a prendere in considerazione anche delle cose che dal periodo adolescenziale in poi si cerca di nascondere, di dimenticare. È stato un bel lavoro, che mi ha permesso anche di fare pace con tante emozioni che erano rimaste nel passato. Quindi questo è un personaggio a cui sono particolarmente legato, soprattutto grazie al lavoro che c’è stato con il regista, Tummolini, che è una persona molto sensibile, di un’intelligenza rara.

Invece un personaggio televisivo è quello che ho interpretato in Romanzo siciliano (2016). La prima ragione, banalmente, perché è un personaggio grande, era uno dei protagonisti, e la lunghezza della parte ti permette comunque di affrontare il set in un modo diverso. Inoltre il progetto era televisivo, ma era diretto da Lucio Pellegrini, un regista di cinema molto bravo; i miei compagni di lavoro erano Fabrizio Bentivoglio, Filippo Nigro, tutti attori con una formazione teatrale e che lavorano al cinema, per cui trovarmi a lavorare tutti i giorni a questo livello mi ha aiutato a prendere consapevolezza del fatto che questo lavoro lo si può fare non perdendo qualità nella velocità. Poi, sai, io avendo una formazione teatrale sono il tipo che arriva sul set il primo giorno e sa già tutte e cinquanta le puntate a memoria.

Penso che questo ti dia anche una maggiore libertà…

Esatto. Quella di cambiare, muovermi all’interno della parte. Io credo che otteniamo quanto lavoriamo. Nel mio campo c’è molta frustrazione, ma io credo che sia proporzionale alla pigrizia. E questo lavoro proprio non la prevede. Anche se non lavori, devi studiare, per poi arrivare pronto. Non si tratta di fare il compitino, né di andare alla serata. Perché se facciamo questo mestiere per questa ragione, allora davvero non rimane niente. Si dovrebbe affrontare ogni parte come un’occasione di crescita.

Perché hai deciso di passare dalla parte della regia?

Io ho sempre avuto la passione per la scrittura, sono un grafomane, però non avevo mai pensato di farne un’integrazione del mio lavoro. Non finivo mai una storia. Poi, improvvisamente, in un testo non ho smesso, ho continuato a scrivere finché non l’ho finito. E può sembrare banale dirlo, ma quando finisci per la prima volta una cosa, diventa vera. E allora puoi passare alla seconda stesura. Ho cominciato a lavorarci, e quando ero abbastanza contento del lavoro che avevo fatto l’ho mandato al Premio Riccione Teatro (nella sezione Under30) e ho beccato una menzione speciale. Avere una piccola consacrazione da quel punto di vista mi ha aiutato ad acquisire l’autostima che serviva. L’ho messo in scena con Claudio Gioè, è andato molto bene, e ho capito che non avrei smesso. Quindi diciamo che la prima emergenza è stata autoriale, non registica.

A proposito di questo, come ti sei approcciato alla scrittura per il teatro? Scrivere per la scena presuppone la conoscenza di tutti i personaggi presenti, che nel tuo caso si dividono sempre in coppie (i due amici di Bestfriend e le due coppie di Senza glutine), come in un gioco degli specchi attore-autore-personaggio…

Io quando comincio a scrivere non so mai come andrà a finire. Pensa che quando scrissi Bestfriend, che è la storia di due bambini all’ultimo anno delle elementari, io stavo scrivendo un testo sulle Brigate Rosse, in cui c’erano anche dei bambini, ma in una maniera marginale. Nel corso della scrittura gli adulti non avevano niente da dire, mentre i bambini volevano parlare! E io all’inizio mi opponevo, volevo scrivere l’altro testo, finché a un certo punto mi sono dovuto arrendere. Lì ho capito che in qualche modo il nostro corpo lo sa quello che scriverà. In questo modo, lasciando fluire, ogni personaggio è come se fosse te. Quindi li lascio fare, mi lascio sorprendere. Poi c’è un momento in cui stampo questi fogli, li guardo, anche per il loro ordine estetico sulla pagina, e capisco cosa sto scrivendo. Allora comincio a fare chiarezza e mi accorgo che un ordine c’era già. Quindi, sì, assolutamente, c’è molto dell’attore in questo. In questo lasciarsi andare e poi riordinare il tutto.

Da dove viene il titolo dello spettacolo?

In realtà nasce da una cosa personale, io per due anni ho mangiato senza glutine a seguito di problemi gastrointestinali, e ho scoperto questo mondo molto interessante. Ho imparato che la nostra flora batterica è in grado di condizionare il nostro umore, le nostre scelte addirittura. La cosa più sorprendente è stata che il personaggio che interpreto io alla fine del testo smette di mangiare senza glutine… e dopo lo spettacolo è successo anche a me! È strano, ma il nostro corpo è molto più intelligente di noi.

I tuoi spettacoli parlano di relazioni: prima l’amicizia, ora l’amore…

Io parto sempre da quello che mi urge raccontare in quel momento, sono molto preoccupato quando si parla di teatro che deve “servire”, come se ci fosse una classifica di importanza di argomenti, io in questo non credo per niente. Non credo nel teatro “impegnato”. Credo nella coerenza con la propria pancia. Perché a questo punto anche Igmar Bergman non era impegnato perché ha basato tutti i suoi lavori sulle relazioni, o Woody Allen, o Harold Pinter! A me interessano le “persone”. Poi non escludo di parlare d’altro, ma escludo di partire dall’intelletto, dal “dovrei parlare di”. Io vorrei che la gente andasse a teatro con la stessa postura con cui va al cinema o si mette a guardare Netflix. Se riuscissimo ad avere lo stesso tipo di “appeal”, avremmo vinto! Invece allontaniamo le persone con un teatro troppo serioso, o esageratamente leggero. Dobbiamo essere popolari nel senso più alto del termine, permettendo tanti strati di letture, popolari come lo erano i Beatles o come lo è Woody Allen, e cito di nuovo lui perché per me è un maestro in questo.

Che poi è ciò che rende Shakespeare nostro contemporaneo…

Esatto! Quel tipo di popolare! Quello di Cechov anche. Un popolare che riesce ad abbracciare tutta la vita. Noi come artisti dovremmo tendere ad essere involontariamente educatori sentimentali. Ed è una cosa in cui credo tantissimo.

Parlami di Senza glutine, spettacolo che hai anche diretto, insieme a Daniele Muratori. Come sta andando?

Bene, per ora. Abbiamo avuto tutti ‘sold out’ la prima settimana. E poi sono felice di aver deciso di farlo all’Argot: ho optato per una produzione più piccola, in uno spazio più piccolo, facendo la strada più lunga, ma mantenendo una totale libertà sulla scelta del cast e della messa in scena. E sono sicuro che facendo delle scelte precise, mirate, sincere, il teatro sia sostenibile anche economicamente.

Chi sono i tuoi attori?

Vincenzo De Michele l’ho visto in uno spettacolo e ho avuto una folgorazione. Alla fine del suo spettacolo sono andato a fermarlo con il copione in mano e gli ho chiesto di leggerlo. Orsetta De Rossi la conoscevo da tantissimi anni e l’avevo sempre vista in personaggi molto diversi, e avevo sempre avuto la percezione di una sua complessità che nessuno aveva sfruttato. Lei è una scommessa vinta. È bravissima. Valentina Carli, che è un’attrice molto brava, è anche la mia compagna, e soprattutto è il mio editor! Con lei durante la stesura del testo mi sono scontrato molto… e molto spesso aveva ragione lei! Quindi aveva una conoscenza assoluta del testo.

È stato molto bello lavorare insieme, perché sai, il teatro non ti arricchisce, e allora ci vuole molta fede nel fatto che potrà darti qualcosa di bello, che però non sai cosa sia!

Sono molto orgoglioso del mio cast. E ci credo. Credo tanto nel teatro.



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