Arti Performative Mutaverso Teatro

La verità è il gioco della sua infinita ricerca. DYNAMIS racconta “Garwalf”

Bernardo Tafuri

DYNAMIS a Mutaverso Teatro: la nostra intervista al collettivo guidato da Andrea De Magistris e Giovanna Vicari, in attesa di scoprire chi è “Garwalf”

Negli ultimi anni, DYNAMIS si è imposta come una delle realtà più interessanti della scena contemporanea italiana (in che modo, se n’è parlato qui).

Li abbiamo incontrati in occasione dell’imminente presentazione a Salerno di Garwalf, loro ultimo impegno performativo che andrà in scena venerdi 3 marzo presso l’Auditorium del Centro Sociale, per la stagione Mutaverso Teatro curata da Vincenzo Albano. Di seguito, le domande che vi abbiam rivolto.

Innanzitutto, Garwalf: chi è costui?

Un nome impronunciabile, invendibile, soprattutto, un punto di arrivo: in una deriva della nostra ricerca, ci siamo imbattuti nei lais di Maria di Francia, poetessa medievale, che in uno di questi piccoli componimenti parla della figura mostruosa di Garwalf, in normanno, “lupo mannaro”. È in verità la storia di un amore profondo, quello tra un uomo ed una donna, divisi da un mistero: ogni settimana, lui scompare senza lasciare traccia, per poi riapparire dopo tre giorni.

«La verità non c’entra con l’amore – ha da replicare – non puoi chiedermi tutto, non puoi sapere tutto ciò che mi riguarda». E difatti, il cedimento di lui alle richieste di lei determina un’insanabile frattura. Il rapporto non regge la troppa verità.

Questa leggenda apre la nostra messa in scena, e tuttavia non è che un pretesto. La narrazione lineare del racconto, che idealmente si presta alla teatralizzazione, e la costruzione scenica della performance si sviluppano progressivamente attraverso un meccanismo ludico.

A guidare il gioco ci saranno due dei nostri performer, mentre sei saranno i partecipanti: “prescelti”, questi sei personaggi faranno parte del tessuto del nostro racconto sulla scena, ospitati in una tenda ad igloo in un crepaccio di montagna. Sei persone nella trappola di un licantropo pronto a sbranarli.

Dovranno sopravvivere, ed al contempo indagare sulle misteriose apparizioni dell’uomo lupo.

Per far ciò, dovranno assumere dei ruoli, lanciarsi in una ricerca: non c’è da scherzare, c’è in gioco la loro “sopravvivenza”; e se fosse necessario rendere il tutto ancora più interessante, sulla testa dell’uomo lupo ci sarà una taglia: il vincitore, oltre che con la sopravvivenza, sarà ricompensato con una somma in denaro.

Intanto, il pubblico sarà lo spettatore della loro vicenda: i partecipanti, pur credendo di essere al sicuro all’interno della tenda, saranno esposti all’occhio costante della telecamera.

 

Un dispositivo di controllo.

Cosa c’è di strano? I partecipanti saranno consapevoli di essere monitorati. Dopotutto, lo siamo tutti, ogni giorno… attraverso il gioco posso dar vita a tutta la gamma delle mie maschere: i partecipanti scopriranno che la narrazione progredisce non solo a seconda delle loro risposte, della loro interazione costante, ma anche attraverso ciò che ciascuno di loro rappresenta, attraverso le tracce di sé che ciascuno ha lasciato sul web.

Pensiamoci: ogni giorno, il nostro corpo digitale costruisce delle storie, lascia tracce di sé in una narrazione senza fine, così noi tracciamo un’altra autobiografia. Garwalf non è che il nostro “pretesto” teatrale: replicare questo meccanismo attraverso il gioco e la performance, farci i conti, o quanto meno, prenderne coscienza.

La narrazione nello spettacolo è il pretesto che ci consente di ruotare attorno a questa domanda sull’identità: che cos’è la verità? Come ci profiliamo? Come ci mostriamo al nostro pubblico, ovvero le persone che quotidianamente attraverso i social ci seguono, interagiscono con noi, si nutrono dell’emotività che noi mettiamo in mostra…. il profilo è una maschera, ed in particolare quella di Facebook, risulta fin troppo plateale.

Ci sembra sia questa la richiesta dei dispositivi social: la vera “versione” di noi, i nostri dati reali, in ogni momento, il luogo in cui esattamente ci troviamo, ciò che stiamo pensando… in ogni aspetto, una definizione completa di noi, aspetti privati che spesso collidono con la versione pubblica, la funzione sociale che siamo chiamati ad interpretare.

Vi è una richiesta di continua di esposizione, in questo senso, la spinta a mostrarci veramente per ciò che siamo è qualcosa che ci modifica, ci spinge a “performare” a seconda della richiesta dell’altro.

La nostra percezione è che gradualmente (ma negli ultimi anni assai in fretta) la nostra socialità si sia aperta all’interfaccia digitale, lasciando che questa ci condizionasse. Ci sta trasformando. Come in un’opera di finzione, come in Black Mirror, il gioco ci permette di esasperare questo meccanismo, rendendone immediato ed evidente l’aspetto ludico e quello grottesco. Anche i nostri performer “indossano” delle maschere sociali, adatte alla situazione: il poliziotto, i cronisti… non hanno un’identità, sono maschere-funzioni.

È quindi la natura stessa del gioco a presupporre che si creino interazioni, strategie di sopravvivenza: man mano che le indagini proseguono e si sviluppano, assistiamo a nuovi arresti, nuove accuse, le colpe di ciascuno vengono scoperte, il confronto sempre più serrato.

Il pubblico osserva tutto l’evolversi della discussione, un po’ come avviene sulle bacheche social, dove ogni discussione è pubblica, ed il fatto stesso che lo sia, mi fa instaurare un certo tipo di relazione, mi fa assumere un atteggiamento: non siamo mai la stessa persona con tutti quanti, cambiamo maschera, ed il nostro atteggiamento è sempre in funzione di ciò che accade, o vorremmo accadesse dell’interazione con gli altri, in tutte quelle conversazioni che presumiamo di poter tenere sotto controllo. Ma la realtà è che queste spesso sfuggono di mano, e di noi non restano che le tracce, che ci possono essere facilmente ritorte contro: siamo le maschere che finiamo per assumere inconsapevolmente.

Di questi input, sarebbe meraviglioso riuscire a restituire sulla scena il più ampio spettro possibile: per parlare di questo nostro “io” disgregato in una molteplicità di maschere, ci serviamo consapevolmente di una forma leggera, teatrale, necessaria a non inscrivere un giudizio, una morale.

Noi usiamo il nostro linguaggio, la performance, soprattutto per non incorrere nel rischio di scadere in facili moralismi, o nel pregiudizio.

 

Big data, digital disruption, diritto all’oblio. Sono questi d’altronde i grandi temi del dibattito sociologico contemporaneo…

Per quanto ci riguarda, ad esempio facciamo ampio riferimento ai contributi di Byung-Chul Han (La società della trasparenza, La società della stanchezza, Psicopolitica), in particolare ci riguarda il tema della “trasparenza”. A questo proposito, stiamo leggendo un romanzo di Dave Eggers, The Circle, che è ambientato in un futuro distopico, e tratta di un “circolo” che appare virtuoso, ma in realtà è vizioso: la protagonista viene attirata in questo circuito, una qualsiasi azienda della Silicon Valley, e pian piano si trova immischiata in un circuito di cui inizialmente non ha alcuna consapevolezza. L’azienda infatti chiede con insistenza sempre maggiore di tracciare ogni sua mossa, per poi estendere lo spettro della sua collaborazione anche oltre l’ambito lavorativo, richiedendone la presenza e la partecipazione ad attività da svolgere ben oltre l’orario di lavoro.

In questo senso, il circuito digitale ha certo le sue fascinazioni, Facebook è diabolicamente interessante: non partecipare significa essere esclusi, isolati. La partecipazione diventa una dipendenza.

 

Oltre “Garwalf”, DYNAMIS ha identità polimorfa…

La formazione attuale, composta da 12 elementi, è al quinto anno di attività. Bisogna dire che abbiamo la grande fortuna di avere un nostro quartier generale, il Teatro Vascello, uno spazio che ci sostiene, e che a nostra volta sosteniamo attivamente attraverso il nostro lavoro. Siamo certo dei privilegiati: avere uno spazio stabile ci consente di programmare le nostre attività e poter articolare la nostra offerta in un percorso coerente di ricerca, produzione e formazione.

Le attività formative vengono svolte in contesti diversi, più o meno convenzionali: istituzioni scolastiche, teatri, musei, ospedali, carceri, luoghi pubblici, festival e spazi occupati, e si propongono di fornire gli strumenti per stimolare l’incontro e la comunicazione tra le persone, per riattivare uno sguardo collettivo e critico sul contemporaneo, in particolare, sulla società.

Talvolta, ed a seconda delle necessità del caso, ci avvaliamo della consulenza di esperti esterni: pedagoghi, illustratori, hackers, ufologi…

Ad esempio, la nostra collaborazione con Romaeuropa Festival è orientata alla formazione “partecipata” del pubblico. Non bisogna semplicemente accompagnare le persone a teatro, i ragazzi in particolare, bisogna coinvolgerli, dar loro una funzione, renderli protagonisti del lavoro. Se ciò non avviene, nel migliore dei casi, non saranno che un pubblico passivo.

I ragazzi devono avvertire la responsabilità di essere coinvolti attivamente in un processo di ricerca, di essere non sudditi, ma collaboratori: in questo senso, l’attenzione pedagogica è il presupposto costante del nostro lavoro.

Viviamo come un trionfo la loro partecipazione: come spettatori, siamo troppo spesso abituati ad un teatro che celebra se stesso o ciò che è stato, e che non dialoga più, o comunque raramente tiene conto delle istanze mosse dai più giovani. La formazione invece, nasce dal dialogo costante.

 

La tradizione gioca un ruolo fondamentale nella definizione di ogni identità. Per definire la propria modalità di azione è importante inscriversi innanzitutto nel solco di una tradizione. In questo senso, il bel dialogo da voi recentemente intrapreso con l’Odin Teatret?

La tradizione è certamente un aspetto molto importante nella definizione di ogni identità. Tuttavia, bisogna considerarne imprescindibile il tradimento.

Attraverso la tradizione vi è certo il riferimento al passato e a ciò che di esso si tramanda come immanente ed eterno: un’esperienza grandiosa quale ad esempio quella di Grotowski, di Artaud, non esclude la necessità di andare oltre questi principii, oltre quel modus operandi.

Personalmente, sono erede della tradizione biomeccanica, tramandata qui da Gennadi Bogdanov. Sarebbe però anacronistico riprodurre acriticamente quelle forme, si tramuterebbero in stilemi, anche i contenuti devono trasformarsi, tener conto delle esigenze dettate dal presente. Il teatro non deve divenire folklore, o antropologia, ma deve costantemente tradire se stesso: è importante guardare al passato, ma non perdere mai il riferimento al presente.

Il nostro linguaggio ha una base tradizionale: la consapevolezza del corpo, il lavoro sulla presenza scenica ne è un elemento imprescindibile, e non vi è alcuna contraddizione nell’accogliere la contaminazione con le nuove forme mediali.

Per quanto riguarda il rapporto con l’Odin Teatret, esso rappresenta per noi una grande possibilità: è stato Eugenio Barba in persona a sceglierci come compagnia italiana di rappresentanza all’Holstebro Festuge, il festival di Holstebro, in Danimarca, che si svolgerà in occasione della celebrazione per i 50 anni di attività dell’Odin. Di quella tradizione accogliamo lo spirito comunitario.

Noi di DYNAMIS siamo in dodici, ed è un grande privilegio poter lavorare insieme: ad esempio, a Salerno saremo io e Giovanna, assieme a due dei nostri perfomer. Intanto, gli altri si occuperanno dei laboratori e di tutti gli aspetti progettuali che ci riguardano.

Lavoriamo molto sull’idea di gruppo, di comunità, di auto-organizzazione, e abbiamo una struttura che ha le sue regole ma risulta al contempo flessibile, si adatta a ogni nuova esperienza. Tutto è in costante trasformazione; il metodo, come noi.



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