Arti Performative

“L’amore del cuore”: l’artificio del teatro e della parola targata Caryl Churcill

Roberta Leo

Una piccola storia famigliare funge da base per allestire uno spettacolo che mette in scena geniali artifici della drammaturgia teatrale. Infatti, il principale protagonista de L’amore del cuore, andato in scena a Roma al Teatro Vascello fino allo scorso 23 maggio, è proprio il testo, firmato dalla drammaturga inglese Caryl Churchill.

Diretto da Lisa Ferlazzo Natoli questo progetto nato dall’ensemble lacasadiargilla, smonta i meccanismi teatrali tradizionali, gioca sulla parola, la fa esplodere, la recide, la sopprime.

La scena, le luci, gli arredi rispondono senza dubbio ad una ordinaria sobrietà in pieno stile british. L’attenzione al testo viene amplificata da una vera e propria scatola sonora realizzata tramite microfoni legati a fili invisibili pendenti dal soffitto e attraverso una partitura quasi musicale di rumori, pause e iterazioni sonore.

I quattro attori protagonisti (Tania Garribba, Fortunato Leccese, Alice Palazzi, Francesco Villano) sono i membri di una famiglia come tante che si mostra al pubblico nell’atto di ‘attendere’ il ritorno della figlia. Quello dell’attesa è un tema spinoso che inquieta. È la paura del futuro e dell’ignoto. L’attesa viene resa ancora più tormentata da un continuo “riavvolgere il nastro”. Gli interpreti danno grande prova di memoria e prontezza seguendo le indicazioni di un figlio ubriacone che diventa il loro ‘regista’. La scena si ripete smantellandone ogni parola, ripetendo gesti e posizioni come delle moviole, accelerandoli, analizzandone ogni azione. Sembra quasi che si voglia ricercare il colpevole di un qualche delitto che, tuttavia, nessuno ancora conosce. Si svelano tensioni irrisolte, scheletri dagli armadi, conflitti familiari: il rapporto dei genitori con il figlio, le paure notturne, nevrosi, relazioni adulterine, cadaveri nascosti in giardino. Si accenna perfino a passioni incestuose, a desiderio auto-cannibalistici. Dei finali aperti confondono lo spettatore. Si desidera la fine, la risoluzione del caso, lo scioglimento dei nodi della trama.

A questo punto l’attore, come si spiega nelle note di regia, non può che «piegarsi alla scrittura assecondandola, fraintendendola o sabotandola, combattendo la parola ricordata, dimenticata e rimemorata».

Lo spettacolo si rivela per quello che è, ossia, uno straordinario esercizio di scrittura e di interpretazione fatto di trabocchetti ed esperimenti drammaturgici che rincorre invano una banale verità: una presunta omosessualità della figlia che i familiari attendevano di ritorno dall’Australia e che verrà palesemente dichiarata dalla sua compagna mandata in sua vece per fare outing. Questa compare in lontananza illuminata da un occhio di bue (Angelica Azzellini), non sembra neanche reale, incarna più che altro una visione, una consapevolezza dell’inconscio. Intanto, le continue riprese creano nel pubblico un effetto di disorientamento causale e temporale. E l’attesa, da tormento, diventa noia.



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