Intorno a Libri

Intorno a… “I. Calvino – Lezioni Americane”

Carmen Navarra

La letteratura, come la stessa parola ci insegna, ingloba la lettura. Non esiste letteratura senza la lettura dell’idea – pur parziale e frammentata – di un autore.

Tra le diverse letture intraprese nel corso della mia vita, ho sempre dato preminenza alla letteratura più che alla saggistica, anche perché – e non dico nulla che alla comunità dei lettori risulti strano – la prima prevede la scelta dell’autore e in seguito l’incontro con le sue riflessioni, strutturate all’interno di un “plot” più o meno definito. La saggistica, invece, permette il confronto e lo scontro tra pensieri e poetiche; è una forma di critica – anch’essa corroborata dalla lettura dei testi – finalizzata a tracciare “un ordine delle cose”. Si potrebbe “banalizzare” sostenendo che la casualità della letteratura motiva la causalità della saggistica: il saggio ricompone quanto la letteratura ha (prospetticamente) composto.

“Lezioni Americane – Sei proposte per il prossimo millennio” (Mondadori, Milano, 1995) è un saggio scritto da Italo Calvino e pubblicato postumo (1988), a seguito di una conferenza svoltasi all’Università di Harvard. Il sottotitolo sembra essere in contraddizione con il titolo: si tratta di lezioni o di proposte? Probabilmente le lezioni nascono dalle proposte: Calvino presenta la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità e la coerenza (l’ultima delle quali abbozzata) come modalità operative che creano, o dovrebbero creare, il sostrato del linguaggio letterario.
“Leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto” (I. Calvino): al di là dei contenuti che la letteratura racconta, il modo in cui essa li racconta deve contemplare l’assenza di peso: “ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto o al linguaggio” poiché l’operazione letteraria potrebbe contemplare una de-costruzione della materia trattata (nel caso degli esseri umani attraverso processi naturali: nascita, crescita,  morte). Questo è possibile prima di tutto in termini quantistici, ovvero attraverso la scomposizione dell’atomo (Lucrezio, De Rerum Natura): “la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero” (Calvino su Lucrezio). Il primo – e più famoso – poema della materia ci conferma non solo che in letteratura esiste la leggerezza, ma che questa può regredire finanche a uno stadio di invisibilità (atomo) tuttavia percettibile nelle cose stesse della natura e del mondo che incontrano la sensibilità umana (p.e.: granelli di polvere in un raggio di sole).

La seconda componente di cui è caratterizzato il linguaggio letterario che racconta la realtà del mondo è, mutatis mutandis, la rapidità poiché “il discorrere è come il correre”; l’agilità e la fluidità verbali vanno di pari passo con la scorrevolezza e la fruibilità di un racconto: non si dimentichi, a tal proposito, che Calvino è stato uno dei più grandi “cantastorie” della contemporaneità, non foss’altro che in lui il genere fantastico ha veicolato, buona parte delle volte, un messaggio realistico e reale (la trilogia de “I nostri antenati”, “Marcovaldo”). L’immediatezza comunicativa è tuttavia frutto di pazienti revisioni e graduali aggiustamenti, pertanto la velocità del linguaggio non deve essere intesa come povertà dei contenuti.
“Non c’è limite alla minuziosità con cui si può raccontare anche la storia più semplice”. Il terzo “valore da salvare” per Calvino è l’esattezza, lo scrivere perseguendo una linea immaginifica dettagliata, quasi chirurgica, partendo, paradossalmente, dal vago e dall’indefinito – su cui si basava, inutile ricordarlo, il pensiero leopardiano – . Per Calvino nessuno più di Leopardi ha raccontato con sì grande precisione ciò che si interpone tra il visibile e l’invisibile, tra il concreto e l’astratto. Ne consegue che la letteratura ha un compito arduo, ma imprescindibile:
descrivere l’indescrivibile; lo stesso Calvino (de)scrive le città invisibili, che non si vedono, appunto, perché frutto della sua stessa fantasia. In questa “ricerca” dell’astratto per il concreto – che in termini tecnici definiremmo metonimia – l’elemento inevitabilmente opponente è il “limite”. Mi concedo il “lusso” di fare una piccola digressione di matrice storica: nel II secolo d.C. Roma, all’apice del suo splendore imperiale, diventa quella che oggi definiamo banalmente caput mundi. Ebbene, due imperatori su tutti, Traiano ed Adriano, contribuiscono a questa trasformazione dell’Urbs: il primo, espandendo i confini – in latino limites – e fondando territori come l’attuale Romania (che prende il nome dalla città di Roma, appunto), il secondo difendendoli (con la costruzione, per esempio, del “Vallo di Adriano” nel Nord della Britannia). Il limes romano ha, per così dire, una duplice funzione, quella di massimizzare la potenza romana (che si estende e si difende) e quella di costruire una barriera (concretamente resa dalle frontiere) tra sé e l’altro, ovvero tra l’uomo civilizzato, che vive nella città (il romano) e l’uomo incivile, che vive al di fuori del “limes” (il barbaro). Lo stesso limite è tracciabile, in letteratura, tra il dicibile e l’indicibile. “[…] Nel render conto della densità e della continuità del mondo che ci circonda il linguaggio si rivela lacunoso, frammentario, dice sempre qualcosa in meno rispetto alla totalità dell’esperibile”.

Un’altra componente, oggetto di dissertazione, è la visibilità – intesa nelle sue più svariate declinazioni: “il poeta deve immaginare visualmente ciò che il suo personaggio vede, quanto ciò che crede di vedere, o che sta sognando, o che ricorda, o che vede rappresentato, o che gli viene raccontato”. Per Calvino l’immaginazione è la chiave di volta, fermo restando che essa possa essere causa di visibilità e (viceversa) causata dalla visibilità: “possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi, quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale”. In un’epoca come la nostra – di cui Calvino aveva già previsto e saggiato i dirompenti effetti – quale ruolo spetta all’immaginazione, tendenzialmente sovrastata dall’immagine prefabbricata? (si pensi a Instagram, Facebook e simili). “Una volta la memoria visiva d’un individuo era limitata al patrimonio delle sue esperienze dirette […]. Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione […]. Stiamo correndo il rischio di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini”. In virtù di questa – oserei dire – incontestabile affermazione, Calvino – ricordo che questo saggio risale a un trentennio fa – propone di fronteggiare il problema usando un espediente: il genere fantastico e/o mitico. Oggi quest’ultimo ha riacquistato grande valore poiché dotato di un’intrinseca potenza visiva e immaginifica: l’epos omerico, per esempio, risulta interessante e accattivante sin dalla più tenera età. Lo stesso dicasi per certa musica indipendente, che racconta il quotidiano servendosi del gusto del meraviglioso. Si tratta di meccanismi narrativi perfettamente in linea con il dilagare dei mass-media, che non avrebbero avuto ragion d’essere un secolo fa.

L’ultima delle proposte calviniane (o meglio: l’ultima che lo scrittore sia riuscito a terminare) prende il titolo di “molteplicità”, termine che, a mio parere, sottintende un certo acume intellettivo (p.e.: “multiforme ingegno” odissiaco). Calvino sostiene che l’aggettivo più vicino a “molteplice” sia “enciclopedico”, pur avendo quest’ultimo un’etimologia “che nasce dalla pretesa di esaurire la conoscenza del mondo rinchiudendola in un cerchio”. Anche se l’operazione del circoscrivere sembra dissociarsi da quella del moltiplicarsi, a ben vedere c’è una certa affinità: la conoscenza come molteplicità, per Calvino, è propria della letteratura che diventa contenitore di un’enciclopedia di saperi: “il principio di campionatura della molteplicità potenziale del narrabile è alla base di un mio libro, Il castello dei destini incrociati, che vuol essere una specie di macchina per moltiplicare le narrazioni partendo da elementi figurali dai molti significati possibili come un mazzo di tarocchi”. Ancora: “la grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo”. Tuttavia la molteplicità da cui è caratterizzata la letteratura (nella sua forma più elaborata e quantitativamente consistente va senz’altro incluso il romanzo Alla ricerca del tempo perduto di Proust) non va confusa con l’onniscienza – condizione impossibile a realizzarsi –. La molteplicità è, più verosimilmente, la summa delle esperienze, delle suggestioni e delle letture di chi, scrivendo, estende le proprie esperienze, suggestioni, letture alla comunità. “Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare, la letteratura continuerà ad avere una funzione”. In questo “alterco” tra la totalità (in)fattuale e quella esperibile, si collocano la prospettiva limitata dell’io e il valore della molteplicità della letteratura.

Il rischio che si corre facendo un’operazione di collazione tendente a comprimere le dissertazioni sviluppate all’interno di un saggio di oltre un centinaio di pagine, è quello di risultare schematici ed esemplificativi. La letteratura – e la critica letteraria che ne consegue – ci insegnano a non essere mai esaurienti. Conscia che questo e tanto altro si potrà o si potrebbe dire, cito, a ragione, uno dei miei scrittori preferiti: “L’ultima parola in letteratura non è mai stata detta e mai lo sarà” (S. Vassalli).



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