Cinema

Dialoghi. Intervista a Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

Fausto Vernazzani

Intervista con i filmmaker Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, incontrati alla Berlinale in occasione della prima mondiale del loro nuovo documentario Materia Oscura.

La prima cosa che colpisce dei registi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti è la serietà. Non è da confondere, però, con una vaga definizione di antipatia, tutt’altro: la coppia di documentaristi, che ha rappresentato l’Italia alla Berlinale 2013 partecipando nella sezione Forum con il loro quarto film Materia Oscura, è aperta, disponibile ad un dialogo ampio e di qualità. La loro serietà si distingue nella visione classica del Cinema, il loro e quello della Storia. Non hanno mai riferimenti scontati, il passato a cui si allineano è strettamente legato ai canoni del linguaggio, della rappresentazione e della comunicazione. Sentire, ma soprattutto vedere qualcuno – giacché stiamo parlando di Cinema – esporre un’idea dettagliata e giustificata è raro nel mondo della cinematografia nostrana. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti sono rari, come fossero usciti da un bacino intellettuale all’apparenza estinto in Italia, ma con ben quattro film alle spalle potremmo definirli come una crescente autorità culturale nel campo. Ed è pertanto un piacere essere riusciti ad incontrarli alla Berlinale per discorrere del Poligono di Salto di Quirra, tema centrale di Materia Oscura, luogo fondamentale della ricerca scientifica militare situato in Sardegna, terra ferita dalle innumerevoli esplosioni, i cui danni emergono sotto forma di malattie e crudeltà finora invisibili ai nostri occhi.

L’approccio alla regia è una delle cose più importanti nella vostra filmografia, uno stile che ricorda quanto disse lo stesso Nagisa Oshima: “Il metodo di un filmmaker è presente anche in una singola inquadratura; da una singola inquadratura dobbiamo essere capaci di comprendere parte del suo carattere e la sua percezione della realtà“. Un punto di vista che calza alla perfezione sul vostro modo di fare film, eccetto l’aspetto della realtà, da voi ripresa nel suo essere irreale.

MdA: Parlando nel caso specifico di Materia Oscura, poi sicuramente si può allargare il discorso anche a Il Castello, stiamo lavorando un po’ sui resti, il fatto di provare a dare un nuovo senso sia al guardare che al vedere le cose, trovare delle cose che apparentemente potrebbero non esserci è fondamentale in questo film. Diciamo che la nostra sfida era proprio quella: girarne uno su un poligono militare dove all’inizio non sapevamo nemmeno come starci dentro. Infatti scherzando io e Martina parlavamo di un film ciambella, Il Castello è un film su un perimetro, molto ben circoscritto, ben identificabile, invece questa volta volevamo fare un film il cui centro, il nucleo più importante è vuoto. Quindi all’inizio c’era questa cosa del circondare la “materia” centrale, poi si è evoluta ed è diventata la materia oscura, questa sfida di provare a filmare l’invisibile – o quasi -, quello che non c’è.

MP: Questo è un film che alla fine resta un documentario, perché non ci sono attori, non abbiamo pagato nessuno per recitare. E’ chiaro, però, che i documentari sono dei film per cui ogni inquadratura è fondamentale per parlare. In Materia Oscura forse si capisce un po’ meglio perché non ci sono proprio parole, non c’è nessuno che parla e allora ancora di più uno deve trovare il significato esclusivamente nelle immagini. L’immagine è la scrittura dei film: è chiaro che ogni “parola” deve essere pensata perfettamente per significare. Resta però un documentario, sì, ma ogni documentario è una reinterpretazione della realtà.

MdA: L’importante in questo film era anche provare ad inquadrare delle cose e far sentire anche quello che non si vedeva. Perché questo legame continuo che c’è tra la vita e la morte, fra il passato e il presente, è generato non soltanto da quel che si vede, ma anche da elementi suggeriti attraverso i suoni, attraverso i rumori, sia delle esplosioni che della natura, così come attraverso l’immagine. Ad esempio i militari filmavano gli esperimenti e ciò che hanno archiviato è nel 99% dei casi in negativo e noi li abbiamo rifilmati dalla moviola. Rifilmandoli abbiamo provato a dargli un nuovo senso perché visti in moviola venivano come spezzettati, ingigantiti, rimpiccioliti. Quindi questo rapporto continuo, appunto, tra ciò che si vede e ciò che non si vede –  vita/morte, passato/presente – è Cinema. Per noi è la materia oscura.

In Materia Oscura il riferimento alla ricerca scientifica del vuoto che colma l’universo è anche un modo per distanziarvi dalla citazione letteraria che contraddistingueva i titoli dei vostri film precedenti?

MdA: Abbiamo scelto di abbandonare i titoli letterari, sì!

MP: Dopo tre abbiamo detto basta, c’è anche qualcuno che ha iniziato a fare dei film intitolandoli come dei libri e allora abbiamo abbandonato!

MdA: Poi quando avevamo iniziato questa cosa dei titoli, anche per gioco, l’idea della trilogia c’era. E quindi abbiamo scelto Materia Oscura, ci piaceva e non sapevamo ancora bene perché. Dopo un po’ ci preoccupava di incupire troppo il film, di non schiacciarlo troppo, invece poi è risultato essere il titolo perfetto! Si è accomodato lì e non siamo più riusciti a toglierlo!

Questa scelta è derivata anche da una spinta verso la ricerca scientifica, ha avuto un’importanza anche nella produzione del documentario oltre che nel tema?

MP: In questo documentario. più che in altri, per noi è stata necessaria una documentazione iniziale per capire che cosa volevamo dire, che cosa potevamo non dire di quel posto lì. Quel luogo è molto legato alla scienza. E’ chiaro che poi tutto questo nel documentario non c’è, però l’aspetto forte del Poligono è che convivono una vita assolutamente agro-pastorale vecchia di sempre e una scientificità, una tecnicità, una contemporaneità pazzesca. Noi non abbiamo però fatto una ricerca scientifica su cos’è la materia oscura, cosa non è.

MdA: Oltre alla materia oscura una citazione scientifica ci ha accompagnato fin dall’inizio, che era appunto “In natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma“. In quel luogo quest’idea è una cosa fondamentale, perché è un po’ anche il processo del cinema, quello della trasformazione, ma è anche legato a quella che è la parte più realistica del documentario, riguardo a queste sperimentazioni belliche. Oggetti che per quanto si possano frantumare in mille pezzi piccolissimi, invisibili all’occhio, da qualche parte restano e generano molte cose. Quindi questa eco c’è, il nostro non è un film che dichiara nulla, ma questo non toglie che non abbia una presa di posizione precisa.

MP: Anche noi abbiamo scoperto cose che non avremmo mai voluto, ma questo nel documentario veramente non c’è.

MdA: In ogni caso per noi la morte del vitello è abbastanza esemplare. Ma poi non è vero, le cose ci sono anche lì. Vale sempre la stessa legge, le cose ci sono tutte, sono solo ritrasformate nel modo con cui noi abbiamo deciso di ri-raccontare il posto. Bisogna avere voglia di stare al gioco. A differenza de Il Castello, che era un film che subito ti prendeva e ti ci buttava dentro. Invece qua c’è un processo inverso, in Materia Oscura piano piano devi entrare e ad un certo punto ci caschi dentro e quindi il processo rispetto a Il Castello è completamente opposto. Chiaramente anche questo è un film che chiede molto allo spettatore, chiede di affrontare un viaggio con pazienza. Chi è disposto a farlo può scoprire delle cose, chi non ce la fa…

MP: La faccenda è tutta lì: il patto se uno ha voglia di farlo lo fa. Se non ha voglia di farlo, non è costretto!

MdA: Un’altra cosa che a noi era molto chiara fin dall’inizio, però evidentemente c’è bisogno di ripeterla in alcuni casi, è che Materia Oscura è un film pre-informazione e post-informazione. Chi conosce molto di quel luogo, vedendo il film farà comunque un altro tipo di viaggio, nonostante abbia i dati a sua disposizione per decifrare il contenuto. Chi non ne sa nulla, farà lo stesso viaggio, semplicemente poi gli verrà voglia di cercare delle cose più d’inchiesta ad opera di un giornalista, però a noi quello non interessa. E’ un altro mestiere, un’altra cosa.

MP: Il cinema non c’entra con l’informazione.

Anche nel rapporto con Il Castello, ogni spettatore si avvicinava al film perché richiamava i suoi ricordi e le sue emozioni. In questo caso avete dovuto farlo entrare con i vostri mezzi, tant’è che il linguaggio del vitello e della mucca conta molto di più della voce del procuratore alla radio. Avete utilizzato tutto questo per avvicinare ancora di più a livello emotivo lo spettatore, attraverso l’animale anziché l’uomo, così da creare un rapporto più personale con il film?

MP: Gli uomini in questo film sono come gli animali, a parte che spesso gli animali sono molto più umani e gli uomini sono molto più bestie. Materia Oscura è un film, che a parte quel piccolo inserto del procuratore non ha bisogno di parole. Filmare la morte del vitello è come parlare di bambini.

MdA: E’ banale dirlo però diventa simbolico di tutto quel mondo. Noi quando abbiamo filmato quella scena abbiamo capito che il film era finito, non abbiamo girato più nulla. In realtà volevamo filmare la nascita di un vitello e invece ci siamo ritrovati a filmarne la morte. Questa è anche la bellezza del cinema documentario, mentre tu stai filmando capitano delle cose, bisogna saperle ascoltare, vedere, assecondare. Però sì, è esattamente così, in questo film c’è un quadro, c’è un fotogramma, ci sono dei fotogrammi ed in mezzo a questi tanti elementi c’è l’uomo. Come anche l’aria, le piante, i topi, è tutto collegato. Come nella citazione dell’inizio, tutto si trasforma e l’uomo è solo uno dei tanti elementi del meccanismo più grande.

MP: Fa parte di quel gioco secondo cui a volte è più forte immaginare che vedere.

MdA: Poi, sì, sempre rispetto a Il Castello, Alberto Crespi diceva una cosa che abbiamo trovato giusta. Il Castello era come se voi portaste gli spettatori in un luogo a tutti noto, che credono di conoscere, ma in realtà vedendo il film si rendono conto che quel luogo non lo conoscevano. Un’osservazione interessante proprio per il discorso inverso su Materia Oscura, quel luogo, quando inizia, la gente non capisce nemmeno che cos’è, invece ne Il Castello subito capiva di essere in un aeroporto, poi scopriva di non conoscerlo, ma quello che non conosce sono in realtà solo i meccanismi. Nel caso di Materia Oscura entri in un luogo che all’inizio fai fatica a capire cos’è se non ti sei informato. Piano piano vi entri dentro, ma a noi interessa l’aspetto metafisico della faccenda: l’uomo è uno stupido che con le sue mani si autodistrugge.

Credo di aver capito, dal botta e risposta seguito alla proiezione, che siete entrati nell’argomento perché vi è stato commissionato il lavoro a questo archivio del Poligono.

MdA: No, quello è successivo. Noi volevamo fare un film su questo luogo, poi è capitato questo lavoro che ha arricchito il film e ce lo siamo portati dentro all’opera. Però non era il punto di partenza.

La sensazione che si ha guardando i vostri film è che lavoriate con una sorta di distacco quasi alla Herzog dal tema che rappresentate, vi allontanate per vederlo come voi lo vedete, ma quello è e quello resta. Nel caso di Materia Oscura, con la morte del vitello, quest’allegoria del male che colpisce l’uomo e la natura, vi siete dovuti immergere nell’argomento.

MdA: Per un film del genere era inevitabile. Era molto delicato da fare, c’erano tanti livelli di errore, di possibilità di non riuscire ad entrare nel film. Girando la morte del vitello abbiamo capito la necessità di andare in quella direzione, certo lo abbiamo fatto a modo nostro, comunque un modo che cerchi una distanza tra noi le cose, ma un coinvolgimento emotivo forte per noi era necessario per un film di questo tipo. E’ un film che si porta dietro cose orrende.

Ad esempio: la scena della vivisezione del topo, che ha suscitato non poco scalpore in sala, come l’avete vissuta quando è successa, quando l’avete filmata?

MdA: Stavo lì in questa stanzetta che filmavo una cosa orripilante, ma in realtà all’inizio mi chiedevo se filmarlo o meno. Poi ho capito che dovevo filmare in un modo completamente diverso rispetto a tutto il resto: stare vicino con la macchina da presa e riprendere il tutto in maniera ingigantita.

MP: Quella è una scena stramba, perché tutto il film è girato in un altro modo, invece di colpo siamo così in primo piano. Per tanto tempo ci siamo domandati se riuscivamo a tenerla oppure no. Ma il cinema ha questa straordinaria capacità che può far diventare molto grandi delle cose molto piccole o molto piccole delle cose molto grandi. Un topo è una cosa piccolissima, ed alla fine ci siamo accorti che quella scena ci serviva per due motivi: per dire che per fare una ricerca – in questo caso contro il Poligono – ci rimette qualcuno, come il topolino, ma anche tutte queste persone che hanno accettato che le salme dei loro parenti venissero riesumate; poi perché le sofferenze sono nelle cose piccole, noi siamo degli esseri “piccoli” che possono vivere delle grandi sofferenze. Tutte le cose che sono in questo film non sono casuali, non ci sono pastori o allevatori qualunque, hanno tutti un legame molto drammatico con quel luogo. Le perdite che le persone hanno avuto non vengono fuori, non ci sono nel film, ma le sofferenze le portano sui volti, come Mario, il pastore anziano. Ce l’hanno scritto addosso.

Intervista a cura di Francesca Fichera e Fausto Vernazzani.



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