Arti Performative Dialoghi

“Anche quando i teatri riapriranno, non sarà facile riportare il pubblico a teatro”: intervista a Vincenzo Del Gaudio, autore di “Théatron”

Renata Savo

Dall’inizio della pandemia il mondo del teatro si trova a vivere delle lunghe e forzate fasi di chiusura come quella attuale, iniziata il 25 ottobre 2020. Artisti e direttori artistici si sono impegnati nella ricerca di soluzioni all’impossibilità di far convivere attori e spettatori nello stesso luogo fisico. Le soluzioni adottate, di cui la gran parte erano già in circolo prima della pandemia, sono emerse, è il caso di dirlo, alla ribalta prepotentemente generando una dicotomia tra chi ha scelto di trasferire gli spettacoli, pensati dal vivo per il palcoscenico, sul mezzo audiovisivo, e chi invece attende speranzoso le riaperture per poter ripartire in sicurezza. Da una parte abbiamo trovato anche dei formati molto originali, che sfruttano altri media (dal telefono ai computer, alle applicazioni di uso comune per lo smartworking), dall’altra parte è il pensiero a lavorare, in attesa di tempi migliori. Da qui il dibattito sull’ontologia del teatro, su cosa sia teatro e che cosa no, e le nuove etichette che sono nate a seguire, come l’ossimoro “teatro in streaming” o il “teatro in video” e il “delivery theatre”. La questione risulta a ben vedere più articolata e complessa di come sembri. Il teatro può essere considerato un medium? In che misura si rapportano le arti performative e i media digitali? I media influenzano il nostro gusto estetico tanto quanto la nostra percezione della realtà? Quale teatro dobbiamo aspettarci dopo la pandemia?
Ne abbiamo parlato con Vincenzo Del Gaudio, studioso di Storia, Sociologia e Mediologia del Teatro e autore di Théatron – Verso una mediologia del teatro e della performance edito da Meltemi, un volume che analizza le trasformazioni in atto nel mondo del teatro e in quello dei media con cui ci rapportiamo ogni giorno e, soprattutto, gli incroci possibili tra le due cose.

Innanzitutto, che cosa sta accadendo oggi al paesaggio mediale contemporaneo e come il teatro si inserisce all’interno della sua cornice?

Il mediascape contemporaneo è in un momento di forte cambiamento. In parte questo è dovuto alla pandemia che stiamo vivendo: da un momento all’altro il digitale si è propagato soprattutto in quegli ambiti che fino all’anno scorso sembravano essere degli avamposti su cui il digitale nulla poteva. La mediatizzazione della società, che era già da molto tempo evidente, sembrava escludere alcuni ambiti. Eravamo convinti che le interazioni face-to-face fossero determinanti proprio alla configurazione di quegli ambiti. Pensa alla scuola o al teatro, appunto. Oggi, un anno dopo, ci troviamo nella fase in cui quella mediatizzazione ha incominciato a intaccare persino questi ambiti. La mediatizzazione non è un fenomeno che nasce con la pandemia, e anzi sono i media digitali a trascinarla. Il processo di mediatizzazione dei rapporti sociali è ormai decennale, forse addirittura ventennale. Con l’avvento del digitale avanzato (dal 2.0 al 4.0) ci troviamo sempre più di fronte a una mediatizzazione crescente dei rapporti sociali. Due mediologi importanti, Nick Couldry e Andreas Hepp, parlando di “mediatizzazione profonda” che significa, semplificando, che i processi legati ai Big Data e alle logiche di produzione e consumo proprie delle informazioni da parte degli algoritmi mettono in discussione la centralità delle interazioni face-to-face. Oggi abbiamo di fronte a noi processi di mediatizzazione profonda legati a meccanismi che spesso per noi sono invisibili: questo chiaramente influisce anche su quegli ambiti che tradizionalmente venivano esclusi dalle forme di mediatizzazione del mondo.

Questo nuovo volume s’intitola, quasi provocatoriamente, Théatron, che in greco definisce il “luogo dal quale si guarda”, presupponendo la compresenza di attore e spettatore in un determinato luogo, mentre in qualche modo tu racconti le evoluzioni di una scena che realizza questa compresenza non in questo senso “antico”, e quindi “fisico”, ma in modo anche liberamente virtuale. Cosa vuoi suggerire al lettore con questo titolo?

Hai colto perfettamente la questione. Il titolo è una provocazione. Théatron è la parola più antica che l’Occidente conosce per identificare quel plesso semantico che è il dispositivo scenico. In realtà ha a che fare con tutta un’altra serie di lemmi, fondamentali per l’Occidente, e uno di questi è “teoria”: il teatro è lo spazio in cui teorizzare sul mondo. Per gli antichi greci, il teatro non era semplicemente uno spazio spettacolare, un posto dove qualcuno si reca per andare a vedere uno spettacolo. Rappresentava qualcosa di più profondo, riguardava i meccanismi sociali che erano funzionali alla strutturazione stessa della società. Non si andava a teatro per essere intrattenuti. Il teatro era lo spazio politico in cui mostrare i cambiamenti della società e anche a costo di farlo attraverso la messa in scena delle violenze più estreme. Secondo me, oggi quel “théatron” deve riferirsi ai cambiamenti della società ipermedializzata. Il problema è che quando tendiamo a definire il teatro “lo spazio in cui vi è la compresenza tra l’attore e lo spettatore”, ci dimentichiamo che oggi quella compresenza è qualcosa di molto più complesso, e determinare a quale livello il corpo venga investito anche nelle esperienze mediali è qualcosa su cui bisogna riflettere bene, perché credo che i nostri corpi siano sempre all’opera, anche laddove vengono utilizzati dispositivi digitali. Immagina come noi usiamo i telefoni e tutte le altre forme di dispositivi digitali: toccandoli. I dispositivi digitali in qualche modo fungono a teatro da membrana, da mediazione tra due corpi, quello dell’attore e quello dello spettatore. Il teatro però da sempre è stato uno spazio di mediazione, una mediazione simbolica tra ciò che accade sul palco, ciò che accade nel polo spettacolare e ciò che lo spettatore percepisce. Oggi ci troviamo di fronte a esperienze complesse, che sono diverse rispetto a ciò che abbiamo chiamato teatro fino a venti anni fa. Da un punto di vista concettuale è davvero complicato riuscire a definire una differenza di natura ontologica tra ciò che è teatro, cioè “dal vivo”, e ciò che è “mediato”. Da ultimo, come fai a dire che questa nostra chiacchierata, nonostante sia mediata da un telefono, non stia avvenendo dal vivo in questo momento?

Ogni studio possiede delle tesi di partenza e delle sue conclusioni. Quali sono state, in questo caso?

Punto di partenza è stato misurare se e a quale condizione il teatro potesse essere considerato una forma mediale. All’apparire dei media tecnologici della modernità, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il teatro si rapporta in forma abbastanza proficua con essi creando tutta una serie di esperienze ibride che hanno a che fare con i media tecnologici; per fare un esempio, nell’ultima parte del diciannovesimo secolo si sviluppa il “teatrofono”, un teatro al telefono che viene presentato alla Exposition internationale d’Électricité di Parigi del 1881, che secondo me rappresenta uno dei primi momenti in cui il teatro si rende conto che il suo obiettivo e il suo spazio spettacolare stessero deflagrando; che cioè si stesse ampliando e diventando sempre più complesso da definire, così come il concetto di presenza. Torniamo al presente e consideriamo le ultime esperienze legate alla pandemia di teatro al telefono, pensa a come queste recuperino i meccanismi del rapporto tra teatro e telefono di fine Ottocento, ai lavori di Cuocolo Bosetti, Campsirago Residenza. Soprattutto con l’avvento del cinema, e poi con l’uscita del saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, abbiamo iniziato a pensare che il teatro potesse essere esterno al mediascape, e tutte le esperienze storiche del teatro che vanno dagli anni Settanta in poi, se ci pensi bene, in qualche modo erano tese a dimostrare proprio questo. Per Grotowski e Barba il teatro era completamente diverso dalle altre forme spettacolari perché ha al suo centro il corpo. Ho provato a mostrare come già da prima il teatro potesse essere considerato una forma mediale. Argomentando le tesi di teorici come Walter Benjamin, Georg Simmel, Marshall McLuhan, José Ortega y Gasset ed altri, la mia conclusione è che oggi appare molto più complesso definire l’esperienza teatrale e quella performativa in genere; anche se lo sforzo di questo libro non è tanto quello di dire “Badate bene, i confini si sono ibridati e quindi tutto è teatro e niente è teatro”, quanto di fornire una cartografia delle esperienze teatrali contemporanee alla luce di una mediatizzazione crescente della società.

“Waiting for Godot” di Wang Chong

Puoi citarci uno o due casi che secondo te potrebbero essere annoverati tra le forme più estreme di questo pensiero sul teatro?

La pandemia ci ha mostrato davvero molti casi-limite, ma ce n’erano anche prima. Mi viene in mente il duo catalano Kònic Thtr, che lavorava su un’idea di telematic performance, performance a distanza in cui connettevano due spazi. Durante il lockdown, invece, le esperienze più estreme, secondo me, sono state quelle che hanno poi dettato dei veri e propri stilemi della pandemia. Mi viene in mente il regista cinese Wang Chong, autore anche un importante manifesto, Online Theatre Manifesto, che ha messo in scena Aspettando Godot di Samuel Beckett, e lo ha fatto mettendo in relazione più spazi, tra cui troviamo ospedali e malati di Covid-19. In questo spazio estremamente mediatizzato, addirittura il Covid diventa l’orizzonte attraverso cui costruire performance spettacolari. Degna di nota anche l’esperienza di Nicola Galli, che con Genoma scenico ha provato a inscenare una sorta di videogame teatrale che, in una certa misura, guarda a gruppi come The Blast Theory o Punchdrunkche  già da qualche anno erano impegnati a ragionare sulla possibilità di costruire performance come dei veri e propri videogame in cui lo spettatore non è soltanto attivo sul piano dell’immaginazione o della percezione, ma diventa parte integrante della narrazione attraverso le sue scelte e, parafrasando le parole di Erika Fischer-Lichte, un “co-soggetto” della performance.

Quali sono stati i pilastri della tua ricerca in questo volume?

La ricerca sostanzialmente si gioca su due versanti paralleli. Uno è quello medio-archeologico. Ho provato a capire, in particolare nel primo e nell’ultimo capitolo, se sarebbe stato possibile lavorare sul teatro a partire dalla cosiddetta archeologia dei media e se le forme che abbiamo istituzionalizzato e chiamato “teatro” potessero trovare nelle forme mediali sorte verso la fine Ottocento un loro antecedente. Nel primo capitolo, infatti, mi chiedo se il teatro possa essere considerato un medium, passando attraverso le riflessioni di Simmel sull’attore, di Ortega y Gasset sulla natura del teatro e di Walter Benjamin sull’opera d’arte. Nella fattispecie, di quest’ultimo ho preso in considerazione quello che io chiamo l’”anatema di Benjamin”: la sua posizione per cui nulla, più del teatro si situa all’esterno all’orizzonte dei media legati alla riproducibilità tecnica. Ho verificato se invece nei saggi di Benjamin ci fosse un indizio di una prospettiva diversa sul teatro, circumnavigando l’anatema per poi ragionare su Understanding Media di Marshall McLuhan, caposaldo della mediologia contemporanea; tra i media analizzati in quest’ultimo, infatti, il teatro non figura, e mi sono domandato perché e in che modo McLuhan intendesse il rapporto tra media tecnologici e teatro. Nel quarto capitolo ho provato a ricostruire l’utilizzo del video a teatro e che cosa esso comporti sul piano percettivo dello spettatore. L’uso del video all’interno del dispositivo teatrale rappresenta una pratica oggi assolutamente comune, di cui non ci stupiamo più come trent’anni fa quando le prime sperimentazioni video venivano utilizzate all’interno della scena soprattutto italiana. L’utilizzo del video a teatro ha una genesi molto più profonda e questa va rintracciata nei cambi tecnologici, nei cosiddetti mediashock – per usare un termine di Richard Grusin – che si sono prodotti dalla fine dell’Ottocento, intendendo con essi quei cambi tecno-mediali che risultano essere anche dei cambi estetici (come l’avvento dell’illuminazione a gas e dell’illuminazione elettrica). I due capitoli centrali vogliono ragionare, invece, sul motivo per cui negli studi mediologici contemporanei il teatro e le arti performative non vengono quasi mai prese in esame. Ho provato quindi a testare alcuni concetti come “performance intermediale”, “obsolescenza”, “zombie media”, alla luce del dispositivo teatrale contemporaneo. La conclusione alla quale sono giunto è che non solo il teatro è interno al mediascape contemporaneo ma che esso rappresenta una sorta di dispositivo fondamentale per la comprensione dei media tecnologici più avanzati come i media digitali, perché rappresenta una sorta di spazio critico, di ipermedium attraverso cui mostrarne il funzionamento nello spazio pulsante della scena. Per fare un esempio: se prendiamo una qualsiasi forma mediale (video, radio, ecc.) e la spingiamo all’interno del dispositivo scenico, nello spazio teatrale, la costringiamo a mostrare i suoi meccanismi materiali; costringiamo, cioè, quelle forme mediali a mostrare come materialmente funzionano, e soprattutto, il loro funzionamento in forma critica. Il teatro, secondo me, conserva ancora oggi il potere di critica più forte, perché rimane quello spazio dentro cui noi ci troviamo a dover criticare i meccanismi e i funzionamenti non solo sono dei comportamenti umani – come ci hanno insegnato gli antichi greci – ma anche i meccanismi attraverso cui i media funzionano nelle società contemporanee. 

“The Repetion” di Milo Rau

Secondo te quali pieghe prenderà il teatro dal vivo, sommariamente, una volta superata la pandemia? Se pensiamo agli ultimi venti anni, c’è stata un interesse vivo verso il docu-fiction, il reality, generi che prendono in prestito le logiche dei media, questo non soltanto a teatro, ma anche in televisione, a teatro e al cinema. Credi che, come per ciò che si è verificato storicamente dopo delle tragedie di grande portata, il teatro e l’arte subiranno una sostanziale inversione di rotta e prevarrà il desiderio di evasione e di sconfinamento dal reale? Il teatro riprenderà il suo discorso da dove eravamo rimasti? 

Escluderei che si riprenderà da dove eravamo rimasti. In prima istanza, dovremmo cercare di comprendere la natura e termini di ciò che fino all’anno scorso chiamavamo “reality trend”. Questa “fame di realtà” che tipo di funzione ha avuto all’interno della scena? Su quali basi si fondava? Il problema di fondo era cercare di capire che cosa dovessimo intendere per “reale”, una questione abbastanza complessa. Teniamo ferma la differenziazione tra reale e irreale, seguendo l’impostazione baudrillardiana (parafrasando Baudrillard, “Il reale è qualcosa e la televisione e i media hanno ucciso il reale”), per cui da un lato abbiamo le percezioni attraverso il corpo e dall’altro le percezioni che vengono mediatizzate: se ci troviamo di fronte all’idea che il reale possa essere un modello attraverso cui possiamo fare esperienza di qualcosa in forma non mediale, allora noi viviamo in uno spazio in cui il reale non è più attingibile, perché viviamo in uno spazio di simulacri e noi accediamo a questa realtà solo attraverso questi simulacri, che vengono prodotti dai media. Ecco, se ragioniamo in questi termini, anche quella fame di reale nascondeva un modello di costruzione della realtà che era totalmente mediato, che aveva una sua narrazione orientata, l’idea che io ti sto raccontando la mia visione del reale. Il teatro richiedeva allo spettatore, ed era questo il paradosso secondo me, di avere accesso a quella realtà, ma quella realtà però veniva costruita a priori dal regista o dall’autore. Se prendiamo Lenin o un qualsiasi spettacolo di Milo Rau in cui ha lavorato sulla narrazione del reale, ci accorgiamo che la realtà veniva costruita a monte, e quindi il reale era già un reale “costruito” e “mediato”. Quella fame di realtà, quindi, era qualcosa che prometteva un accesso al reale, ma che di fondo aveva la sua radice proprio in una forma di mediazione. La pandemia ha complicato ancora di più la faccenda, perché quest’anno la realtà si è ulteriormente mediatizzata. Viviamo gran parte del tempo davanti agli schermi, molto di più rispetto a un anno fa, e costruiamo le nostre narrazioni esistenziali a partire dai rapporti che abbiamo con i nostri dispositivi elettronici. Quelle che tu individui come narrazioni di “evasione dalla realtà”, narrazioni immaginifiche legate a un orizzonte dell’immaginazione, diventano modelli attraverso cui noi cerchiamo di ricostruire il nostro rapporto con un reale che, in sostanza, non riesce più a dar conto delle nostre identità e dei nostri rapporti sociali, dove questi sono tutti figli di una serie di enormi restrizioni che la pandemia ci ha portato a vivere. Che cosa succederà dopo è difficile dirlo, soprattutto a teatro: è difficile immaginarsi in che modo e con quale stato d’animo torneremo a teatro, con quanta paura dell’altro. Se il teatro è lo spazio della relazione, lo spazio dell’”altro”, che cosa accade quando l’altro potenzialmente è pericoloso, rappresenta una bomba epidemiologica, un portatore di morte? Se il teatro è davvero il luogo della relazione, che cosa avviene quando uno dei due termini della relazione rappresenta il male, il contagio, ecc.…? Credo che ne usciremo molto cambiati. Per un lungo periodo, anche quando i teatri riapriranno, non sarà semplice riportare il pubblico a teatro. Detto ciò, rispetto ai temi, alle forme e ai formati, credo che sarà difficile tornare indietro e poter ripensare un teatro pre-pandemico o a un teatro pre-digitale: la verità è che già prima della pandemia la mediatizzazione del dispositivo scenico era ormai evidente, si muoveva e stava accadendo con dei tempi molto più dilatati. La pandemia non ha fatto altro che fungere da acceleratore sociale. Ha accelerato processi che erano già in atto. Questa accelerazione cancellerà completamente il teatro come lo abbiamo conosciuto fino a ieri? Io risponderei di no. Di sicuro resisteranno forme di teatro legate a un orizzonte in cui le forme di mediatizzazione digitale vengono viste come esterne e impossibili da conciliare. Penso che però sempre più spesso ci troviamo di fronte a un teatro che ragioni con i termini della mediatizzazione. Questo non significa mettere in scena l’una o l’altra forma mediale, ma fare i conti con la “mediatizzazione della percezione”: incominciamo a percepire costruendo la nostra percezione a partire dai media digitali. Ti faccio un esempio che credo possa essere calzante e che riguarda una pratica che era comune anche prima della pandemia. Ricordi in che modo i direttori artistici in genere costruivano le loro stagioni? Erano in pochi a girare per vedere gli spettacoli e la maggior parte guardava le registrazioni video degli stessi. Questo ha implicato, da un lato, che gli artisti realizzassero spettacoli sempre più facilmente riproducibili attraverso il medium audiovisivo, in modo da poter girare all’interno dei circuiti teatrali e, dall’altro, i direttori artistici hanno costruito in misura sempre maggiore il proprio gusto estetico a partire dal video. Da ultimo ancora, gli attori sono continuamente a contatto con i media digitali (pensa ai telefoni, a quanto cinema e serie televisive guardiamo, a quante forme di spettacolo digitale gli artisti si sono sottoposti): credi che dal punto di vista della loro percezione estetica, della loro percezione del mondo, del loro modo di costruire lo spazio anche scenico tutto questo non influisca? A me sembra paradossale, se non impossibile, che basti mettersi in uno spazio con due corpi per azzerare completamente l’influenza che i media digitali hanno sulla nostra percezione del mondo e fermare la mediatizzazione crescente dell’esperienza.

 

[Immagine di copertina: Vincenzo Del Gaudio]



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