Musica Nuove Uscite Senza categoria

King Krule – The Ooz

Carmen Navarra

Archy Ivan Marshall in arte King Krule è un ragazzo inglese di soli 23 anni, che arriva – come le sue stesse canzoni ci suggeriscono – da Bermondsey, un quartiere del Sud Est di Londra; è logorroico e struggente, ma anche crudo e incisivo. Ha uno stile che oscilla tra il rap soul e il jazz fusion, si riveste di elementi di post punk e ha virate rock. Ha generato dentro di sé il Caos – inteso nel suo significato primigenio di Voragine e di Abisso – dal quale non gli interessa risalire (un po’ per scelta, un po’ per le contingenze). Questo modus essendi, che piace perché non è stucchevole, ma (ahinoi) figlio di estremismi troppo prematuri, si ripercuote sul modo di scrivere che è incline alla più cupa disperazione (le sue canzoni parlano di solitudine, disagio sociale, problemi familiari), alla difficoltà di resistere, al bisogno di lambire il dolore e di annegarvici impudicamente.

A distanza di quattro anni da 6 Feet Beneath The Moon, lo scorso 13 ottobre King Krule ha lanciato The Ooz, un disco ossuto e denso al tempo stesso: la lunghezza dei testi, sempre emotivamente perforanti e lo spoken word che caratterizza buona parte delle 19 tracce fanno da contrappeso a una musicalità molto asciutta che ha picchi di radiosità estrose in rarissimi momenti (Vidual). Il titolo è una sorta di anagramma di “Zoo Kid”, primo moniker con cui Marshall si firmava quando iniziò a registrare demo. In senso più esteso “Ooz” qualifica quello che lui stesso definisce il subconscio creativo da cui si dipana un’identità musicale più consapevole (ma non del tutto salda). Il disco è stato anticipato dai singoli Czech One, di ispirazione piacevolmente jazz e nel cui titolo si può cogliere un riferimento a Praga, attuale ubicazione di Marshall e Dum Surfer, in cui emerge una certa “nevrosi lessicale” che disegna immagini forti e violente (l’assunzione di droga, gli schianti in macchina con una ragazza succinta, il vomito sui marciapiedi per una sbronza di troppo). Quest’album, tuttavia, rievoca il passato, in particolar modo il rapporto tormentato con l’infanzia e una madre alcolizzata (Logos) e la Londra in cui Marshall è nato e cresciuto: con una manovra artistica raffinata ed autentica, l’artista immagina la biforcazione di Bermondsey, di cui prima prende in considerazione l’ala sinistra (Bermondsey Bosom (Left), canzone cantata in spagnolo da suo padre, direttore artistico e scenografo e poi l’ala destra (Bermondsey Bosom Right) nella cui versione inglese si ravvisa un rapporto contrastivo e complesso con il suo quartiere: me and you in this of parasite, paradise, parasite, paradise//tu ed io in questa città parassita, paradiso, parassita, paradiso; anche in Biscuit Town, pezzo grigio e fumoso, è contenuto un riferimento a Londra, in particolar modo alla Peek Freans, prestigiosa compagnia inglese che confeziona biscotti. Ciò che stupisce di questi pezzi incentrati sulla sua città è il senso di disagio emotivo che spinge King Krule non solo a vedersi titanicamente solo, ma ad associare la sua condizione a quella di tutta l’umanità: we all have our evils, as trackies walk on by, I’m alone, I’m alone, in deep isolation// abbiamo tutti i nostri malesseri, mentre i binari camminano vicino a me, sono solo, in profonda solitudine. Questo status quo trova in Lonely Boy una drammatica conferma. Tuttavia struggenza non fa sempre rima con solitudine, tant’è che in questo disco si ritrovano impennate di jazz meno soft giocate sulla sovrapposizione di più tonalità vocali dello stesso Marshall, che “grida” la sua inquietudine (Slush Puppy). Forse è proprio questa la chiave di lettura di The Ooz: la musica come contenitore di storie e, per dirla alla De André, come “ingorgo di parole” nelle quali si ricade ma di cui non si può fare a meno.



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti