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Gibson Brands – The Sound Of Art @ Spazio Temporaneo – Milano

Maria Ponticelli

Siamo nel lontano Michigan all’inizio del ventesimo secolo, quando un tale Orville Gibson, costruttore di mandolini, ebbe una geniale intuizione che lo portò  a fondare (insieme ad altri cinque imprenditori che ne sposarono l’idea) la Gibson Mandolin – Guitar Mfg.Co, Ltd.  Nessuno, allora, poteva immaginare quanto sarebbero state apprezzate le sue produzioni ne’ quanto queste avrebbero condizionato la storia musicale del “secolo breve” che vi si spiegava dinanzi. Avesse potuto vivere più a lungo, il signor Gibson avrebbe visto gli elefanti della storia del rock imbracciare le sue chitarre, ma il liutaio statunitense morì quando la casa di produzione cominciava a scalare l’olimpo della celebrità nel panorama musicale internazionale.

In poco più di vent’anni infatti la compagnia arrivò a dominare il mercato statunitense della costruzione di strumenti musicali. La prima a rivoluzionare il concetto stesso di chitarra fu la archtop in cui la buca centrale venne sostituita da due F simmetriche ispirate agli strumenti ad arco come violini e violoncelli  e, alla fine degli anni trenta, la Corporation presentò la ES- 150, la prima chitarra elettrica commerciale. La fortuna della Gibson fu determinata proprio dal coraggio e dalla capacità visionaria del fondatore da cui la casa ha ereditato il nome. Gibson infatti avviò la produzione di una serie di mandolini e chitarre con la cassa di risonanza sagomata, come quella di un violino, e bombata sulla superficie anteriore dove vengono adagiate le corde, molto diversa quindi dalla classica cassa piatta, l’unica esistente in commercio fino ad allora. Fu proprio tale caratteristica “fisica” a determinare la cifra stilistica della chitarra Gibson ma la novità non era limitata solo all’estetica; il nuovo tipo di cassa armonica consentiva di ottenere prestazioni migliori dal punto di vista della potenza sonora, tanto da diventare la discriminante nella scelta dello strumento da parte di numerosi musicisti dell’epoca.  La lungimiranza della Gibson non si esaurì certo sul nascere; nel 1952 la casa introdusse sul mercato la prima chitarra solid body. Anche qui, la linea di confine fu tracciata dalla cassa di risonanza non più vuota ma costituita da un corpo pieno. Parliamo della famosa Les Paul creata in collaborazione con l’anonimo musicista Les Paul, al secolo Lester William Polfuss. È facile a questo punto immaginare come le prime produzioni della Gibson (e non soltanto le prime) siano ormai autentici pezzi da collezione sulle cui tracce si trovano appassionati di tutto il mondo, ed amanti del sano e robusto rock in particolare; esse in ogni caso  continuano ad essere le più ambite, sia da musicisti alle prime armi che da quelli con le dita consumate.

Le sinuose chitarre americane non potevano quindi mancare all’appello in occasione della Milano Music Week,  la settimana in cui il capoluogo lombardo si consacra alla musica. La Music Week « riunisce per la prima volta l’intera filiera musicale: l’industria discografica, i locali, i centri di formazione, gli artisti, i tecnici, i promoter, gli autori, gli editori», con queste parole l’assessore alla cultura del Comune di Milano, Fabrizio del Corno, introduce un evento che egli stesso definisce “totalizzante” perchè coinvolge tanti centri di cultura e di produzione artistica disseminati per la città, e non solo contesti legati direttamente alla produzione musicale ma anche luoghi dedicati ad esempio alle arti visive, come le gallerie, in cui il dialogo tra musica e pittura, design, scultura, si presenta in tutte le sue dimensioni e sfaccettature.

É così che nasce il progetto che ha dato vita alla mostra “Gibson Brands – The sound of art” ospitata dal 21 al 26 Novembre all’interno della galleria d’arte contemporanea Spazio Temporaneo in via Solferino. La collettiva nasce dalla collaborazione tra alcuni marchi dell’azienda americana come la Epiphone (storico competitors della Gibson e da questa acquistata nel 1957) ed alcuni giovani artisti e designers della scena milanese. Le chitarre, (ma anche casse e microfoni) assumono una nuova identità sotto la spinta creativa di mani sapienti che a loro volta si appropriano dell’anima dello strumento per restituirla attraverso dettagli sconosciuti alla produzione seriale.  A ciascun artista quindi la possibilità di esprimersi e di trasformare lo strumento in base al proprio personale sentire.

Per comprendere al meglio il valore delle creazioni oggetto della mostra, parliamo con la proprietaria della galleria, la signora Patrizia Serra, che volentieri ci guida alla fruizione delle opere esposte.

Come nasce il progetto “Gibson brands – The sound of art”?

La mostra è stata promossa dalla Gibson stessa ma nasce anche dall’intuizione di una persona giovane, mio figlio, che è un tecnico del suono ed in passato ha anche avuto una casa discografica, insomma, una persona molto coinvolta nel settore musicale come io lo sono con le arti visive, così nasce una complicità dove ciascuno capisce le libertà dell’altro e questa è stata una delle volte in cui ci siamo trovati a lavorare insieme. D’altra parte, da ex “sessantottina”, che ha vissuto gli anni ruggenti in cui queste chitarre sono state protagoniste, ho accolto da subito l’idea del progetto “Gibson”.

Cosa può dirci riguardo gli artisti che hanno partecipato a questa operazione?

Comincerei da Pietro Travaglini che da designer ha fatto un grosso lavoro estetico ( e ci indica le “cover” d’acciaio create per la chitarra Gibson esposta di fianco ); una chitarra: cinque possibilità diverse di presentarsi, cinque abiti, che si esplicano nelle facciate che l’artista ha sviluppato. Accanto ad esse Travaglini ha posto la sua sedia “misteriosa” fatta ugualmente d’acciaio ed il suo tavolo che cambia colore a seconda dei suoni emessi dalla cassa che vi è posta al centro. Poi ci sono i lavori di Alessandro Ottolina e di Alberto Gazzarata (ci indica dei microfoni che sono stati trasformati in lampade) insieme ad un tavolo ed uno sgabello. E poi c’èl’opera di KayOne che è uno dei più noti graffitari milanesi che ha interpretato una chitarra attraverso il suo stile e l’opera pop art di Andy di cui troviamo anche uno specchio “ad unghia” rivisitato allo stesso modo. E ancora, uno strumento lavorato da Ottolina, ovvero una chitarra dove c’è stato un meticoloso intervento scultoreo su legno d’olivo, non semplice da lavorare.

A proposito della scultura in legno che si innesta con la cassa della chitarra, l’intervento nei confronti dello strumento è risultato invasivo?

No. Tutte queste chitarre suonano. Esse sono state private della loro parte elettronica perchè delicata e che provvederemmo a montare se qualcuno ci chiedesse di suonarle. La Gibson stessa ha messo in salvo la parte meccanica dello strumento per non costringerla a movimenti bruschi, ciò non toglie comunque che questa possa essere reinserita all’occorrenza…anche se son così belle che, dal mio punto di vista, potrebbero restare così. (sorride)

Una volta chiusa la mostra, le chitarre verranno quindi restituite alla Gibson?

Ci sono in realtà delle persone che hanno in mente di prenderle ma al momento abbiamo delle trattative in corso.

C’è anche un’opera di un’artista femminile, e femminile è anche l’interpretazione stessa della chitarra, non crede?

Si, lo è, e mi piace che ci sia anche l’interpretazione artistica di una donna. L’opera di Maui è molto pop ma anche molto “femminista”a giudicare dal soggetto rappresentato: mani che tentano di arrivare alle corde della chitarra in mezzo ad una invasione di corpi e di anime.

Accanto al lavoro di Maui c’è anche quello di Motta che è molto vicino alla mia sensibilità, un’ossessiva creazione di piccoli personaggi che si muovono sulla cassa della chitarra. L’artista ha accompagnato lo strumento con una piccola scultura in acciaio…la trovo di grande vivacità.

Che affluenza di pubblico ha avuto la mostra?

Una buona affluenza. Tanti sono accorsi, intenditori, collezionisti ma anche semplici curiosi. Le persone che hanno partecipato all’esposizione si sono divertite come matte, persino il mio assicuratore è rimasto piacevolmente sorpreso e mi ha raccontato che da giovane suonava il basso, c’è stato quindi un salto nella musica per tutti quelli che sono stati qui.

L’immagine prima della parola quindi?

Esatto. Vede, io penso che le arti visive e la musica precedano persino la parola. Mi sono tanto occupata in passato di ciò che succedeva nelle caverne e posso dirle che in alcune di esse si ritrovano tracce a dimostrazione del fatto che ciò che viene reperito è frutto di autentici lavori artistici. In una di esse è stata ritrovata persino la firma di un’artista, riconoscibile dal fatto che egli aveva un mignolo rotto per cui si sa che l’intervento è stato eseguito da un singolo e non da un gruppo come spesso si crede. L’immagine non si comprende, essa s’intende piuttosto. É come una poesia; della poesia può rimanerti impresso un verso, non tutto il testo, e così funziona anche per l’immagine, essa rimane per impressione. Una volta ho visto una fila dinanzi al museo di San Marco a Venezia, in attesa di ammirare “l’Annunciazione” di Beato Angelico, bhè, ho pensato, magari i cinesi non comprenderanno la figura di Maria ma saranno sicuramente capaci di percepire la bellezza dell’opera e la bravura dell’artista.

In che modo l’arte visiva dialoga con la musica

Come dicevo poc’anzi si tratta di esperienze che s’intendono. La musica, ad esempio, vede… di essa fondamentalmente sappiamo poco ma quest’arte ha la capacità di innestarci da subito, ci da un’impressione, e noi riusciamo a capire immediatamente se un brano ci piace oppure no, senza tante valutazioni. Così vale per l’immagine, ciascuno ha una propria personale sensibilità, e la cultura attiene proprio a questo,  altrimenti essa diventa solo un’insulsa fila di nozioni che non s’imprimono ma restano lì…e si scollano.

 



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