Arti Performative Focus

Un’ontologia della danza. “Gala” di Jérôme Bel a Short Theatre

Andrea Zangari

Una carrellata fotografica di teatri vuoti. Grandi, piccoli, all’italiana, all’inglese. Centrali, di periferia. Istituzionali, improvvisati. Ridicoli, solenni. Dopo pochi minuti sorgono i tipici rumorii della platea. Colpi di tosse, qualche mormorio. Alcuni bagliori fra le poltrone lasciano immaginare ultime fugaci occhiate a Instagram. L’attesa si fa momento di ripiegamento mentale. Appare anche una foto del Teatro Argentina di Roma in cui ci troviamo. L’immagine restituisce il senso primo, e ultimo, dell’architettura: un vuoto, un’attesa da riempire. Quasi una preghiera. Si avverte che tanto più il teatro è monumentale, tanto più alta è l’implorazione a farsi invadere. Occupazione è significazione.
Presentato in prima nazionale in occasione del festival Short Theatre, ed in congiuntura col festival Grandi Pianure sulla danza contemporanea, Gala è l’ultima costruzione corale, per 20 danzatori, professionisti e non (che sono stati selezionati a Roma), del coreografo e regista francese Jérôme Bel.

“Gala”, creazione di Jérôme Bel

Chi conosce l’opera di Jérôme Bel non sarà affatto stupito di questo incipit forse un po’ intellettuale. Statico, sgraziato, avverso all’idea comune di uno spettacolo di danza (le foto proiettate a tutt’altezza non hanno uno stile omogeneo, spesso sono fuori fuoco, scattate con dispositivi non professionali, altre volte sono da copertina). Decostruttivo senza alcun filtro ‘politically correct’. Entrano poi in scena i danzatori. Professionisti di diversa estrazione, ma soprattutto non professionisti: giovani, anziani, con handicap fisici e mentali. La poetica dell’elenco irrompe nella sferzata di assoli in cui i corpi si presentano, accennando un gesto, un’intenzione, un piccolo regalo. Un cartellone, ricavato sul verso di un calendario, come in una sagra di paese, è sfogliato dai performer per descrivere l’azione in corso. Si passa al valzer, poi all’assolo. L’inchino, l’improvvisazione, le scene corali. Gala suggerisce appunto l’idea della carrellata, della giustapposizione sdoppiata nell’anima fra un’offerta antologica da Grand Theatre e un cabaret provinciale e dilettantistico.

Si è parlato spesso, riguardo ai lavori del regista e coreografo francese, di un’interrogazione sostanziale sul significato del gesto artistico. In Gala si avverte invece una mozione ancor più radicale, volta a rintracciare la linea della rappresentabilità, di ciò che può occupareper un certo tempo lo spazio della nostra attenzione, inter-ferendo con lo sguardo spettatore. In tal caso, però, non vi è nulla di cerebrale: le domande che i corpi in scena aprono sono cogenti, reali, pressanti.

Si parte da una convenzionale discriminazione, ben inculcata in ciascuno: quella fra professionismo e non-professionismo, e dall’assunto conseguente che valga il biglietto (o il tempo, o la fatica, insomma un generico valore di merito) solo quanto ricada nella prima metà. Così l’attenzione dello spettatore è attivata brutalmente nel cercare il movimento costruito del danzatore di professione. Gli amatori suscitano dapprincipio ilarità, tenerezza, o potenzialmente irritazione. Il disagio che proviamo di fronte all’esibizione del fallimento. Cala il silenzio quando entra in scena un performer in sedia a rotelle. Siamo tutti inchiodati al nostro senso del pudore, bloccati nell’atteggiamento finora rivolto agli altri performer.

“Gala”. Foto di Herman Sorgeloos

Giusto applaudire? Ridere? Stare in silenzio? Che cosa potrà offrirci questa perentoria limitazione? Ma poi il flusso continua. Lentamente sentiamo lo sguardo attivato da un’altra pulsione: accostati, i gesti “colti” e non rivelano qualità e tensioni inattese. Lì dove vedevamo il bello, la sicurezza di una sequenza collaudata, affiora la fatica. Paradigmatica è la serie di azioni finali, ove un singolo propone la sua danza, e il gruppo lo segue. L’esercizio dello sguardo imitativo pone tutti nella fatica gioiosa di perdere la costruzione del proprio gesto, che infine è la costruzione del sé. Né si può parlare di elevazione o abbassamento, semmai è tutto affondato nell’orizzonte dell’istante presente. Non si parla nemmeno solo di una nuova prospettiva “umanizzata”, di una revisione buonista e filantropica che finirebbe inevitabilmente per portare il diverso all’identico, riducendolo. Come in tanto teatro sociale che si avvale di attori non-professionisti, pulendone tuttavia la scorza dilettantistica, non si parla, in assoluto: perché Gala è. E la dimensione finale è un’ontologia della danza. La rappresentazione è un proiettile che buca gli strati superficiali della morale, delle convenzioni estetiche, delle paure individuali. La controprova è l’emozione unanime, gli applausi a scena aperta. Ci viene toccata una corda s-cordata, tanto più rigida nei critici, e nei giudiziosi in genere.

 



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