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“Uno specchio in cui dobbiamo imparare a non smettere di guardarci”: “Iliade” secondo Riccardo Palmieri, direttore artistico del Čajka Teatro di Modena

Carmen Navarra

In scena a Modena in questi giorni e fino a domenica 7 ottobre c’è Iliade: studio per un assedio ideato e diretto da Riccardo Palmieri, direttore artistico di uno spazio di recente fondazione, il Čajka Teatro d’Avanguardia Popolare, che dà il nome alla sua compagnia. Ha appena tre anni, infatti, ed è un luogo bianco, di ispirazione russa, come suggerisce anche il nome (“Čajka” significa “gabbiano”).
Nella sua “Iliade”, presentata in prima nazionale giovedì 4 ottobre, gli spettatori assistono allo spettacolo condividendo con gli attori (Angelo Argentina, Marco Massarotti, Daria Menichetti, Marianna Miozzo e lo stesso Palmieri) cibo e bevande. Figure di partenza esplorate sono infatti gli “aedi”, i cantori e poeti che tramandavano durante il convivio, in forma orale, miti e storie non ancora fissate dalla parola scritta. Spazio e tempo assumono un significato diverso e diventa possibile raccontare in modo non lineare gli eventi. Per questo lo spettacolo non ha un copione scritto, e le storie narrate dagli attori non sono mai le stesse. Abbiamo chiesto a Riccardo Palmieri in che cosa consiste il valore del mito, oggi, e da quale prospettiva ha osservato il poema omerico che narra le gesta eroiche e gli scontri nella città di Ilio.

“Iliade: studio per un assedio”, regia di Riccardo Palmieri. Foto di Enrico Maria Bertani

Quale valore scenico e metaforico viene attribuito all’”assedio” del sottotitolo? 

L’assedio è uno stato dell’anima, non è solo una condizione fisica. Un esercito che assedia un’altra città rendendola prigioniera è qualcosa che già si conosce, una strategia della guerra da tempi remoti, passando attraverso Giovanna d’Arco, fino ad arrivare al presente (basta guardare alla Siria). Ciò che secondo me si tende a non riconoscere è lo stato d’assedio come “condizione interiore” e mutevole. Gli assediati in breve tempo si trasformano e diventano come gli assedianti, perdendo quella traccia di umanità che c’era. Omero, il presunto (o chi per lui), quando ne condensa le vicissitudini in un unico poema tenta di nobilitare la faccenda. Proprio come accade oggi: non troveremo mai detto dagli americani “Andiamo in Kuwait perché ci serve il petrolio!”, semmai, “andiamo a portare la libertà!”. Ai tempi del poema omerico la libertà non esisteva, era un concetto futile e per essere nobilitato aveva bisogno di essere travestito dall’onore, che era la merce di scambio più alta. Di conseguenza, “Bisogna fare una guerra per riportare a casa Elena”. Da sempre gli uomini non possono accettare di andare a morire per la meschinità e per la grettezza del denaro. Da questi pensieri siamo arrivati a trattare il tema di che cosa sia la guerra oggi, dividendola, senza fissare un copione, in uno schema molto preciso: gli assedianti arrivano, un soldato muore, poi c’è la vendetta, e quindi un addio tra un uomo e una donna e, per finire, una Pietà. Quanti soldati muoiono e quanti devono essere vendicati? Quanti vengono considerati eroi perché colmano una vendetta? Se pensiamo al film The Sniper di Clint Eastwood, per esempio, c’era un eroe, un “Achille” per gli americani, ai quali gli arabi rispondevano con il loro eroe. Gli uomini hanno bisogno di trovare l’eroe per sostenere ideali e miserie personali, perché guardarsi dentro, e accettare il fatto di essere dei miserabili, è troppo forte da sopportare. E allora ogni cosa dev’essere travestita. A un certo punto i soldati sembrano dei pupazzi a molla: la divisa cancella le identità, perché ne affibbia una così forte, quella del soldato, che fa perdere il vero volto dell’individuo. 

La guerra di Troia è l’assedio che la civile Grecia di Agamennone e degli altri re muove contro il barbaro, lo straniero troiano. Eppure valori come l’amore per la patria, la famiglia, la religiosità sono incarnati da Ettore e compagni, quasi come se Omero volesse spingere i suoi ascoltatori a tifare per i nemici stranieri. In questa prospettiva si confondono eroi buoni e cattivi. Nel tuo lavoro c’è un’opposizione netta tra bene e male?

È vero che Omero esalta molto i guerrieri troiani, ma dietro questa scelta c’è un espediente narrativo inventato dai greci: il nemico andava descritto come imbattibile per dare più risalto alle proprie risorse. L’espediente è stato ampiamente ripreso anche dai romani, quando parlano di Annibale come “demone incarnato” durante la seconda guerra punica. Se io riesco a battere un nemico imbattibile significa che posso sconfiggere chiunque, senza che ci sia bisogno di dire “siamo noi i forti”. Non c’è assolutamente una contrapposizione tra bene e male, in virtù del fatto che lo stato d’assedio ti trasforma e ti fa diventare come il tuo nemico. In uno dei capitoli Omero descrive l’estasi che si passa da un esercito all’altro. Un’estasi potente, che invasa i guerrieri: buoni e cattivi sono accezioni che non servono più a nulla. C’è chi difende la famiglia e chi il proprio onore; entrambi sono visti come valori, non si può dire che uno sia giusto e un altro sbagliato. Di sbagliato c’è il fatto che si uccidono. Ridurre Iliade a un conflitto tra bene e male sarebbe strano, anche perché, come scriveva l’autore africano Ahmadou Kourouma, in Allah n’est pas obligé (2000) (Allah non è mica obbligato), «la bestia peggiore è l’essere umano: a guardarci dentro, vale bene un viaggio». Nel lavoro cerchiamo di ricamare su questo concetto: chi subisce un lutto, poi lo infligge a qualcun altro. È esattamente ciò che fa Ettore con Patroclo quando lo uccide, e Achille quando si vendica: uno gioco di scambio di ruoli, tra macellai e macellati.

“Iliade: studio per un assedio”, regia di Riccardo Palmieri. Foto di Enrico Maria Bertani

Mentre molti registi si ispirano alla tragedia greca, tu hai scelto di trattare il mito da cui nasce l’epica omerica, dove gli eroi, per poter essere definiti tali, dovevano essere belli e valorosi; nel tuo spettacolo la stilizzazione dei personaggi viene rispettata oppure costruisci personaggi singolari, con tratti psicologici marcati?

Nel nostro modo di affrontare il teatro non c’è il personaggio. Io preferisco parlare di “ruolo”. Ogni carattere porta con sé una linea “tematica”. La linea tematica apre ad altri risuonatori. Mi piace nel nostro lavoro che gli attori giochino in alcuni momenti a essere Paride, in altri a essere Ettore, in altri ancora a essere Achille. Il loro è un lavoro sul “tema” che in quel momento porta con sé il personaggio, che fa risuonare altre tematiche, che a loro volta muovono la storia. Noi non andiamo mai in quinta, siamo sempre a vista, osservati anche mentre cambiamo ruolo. L’approccio ludico è fondamentale: nella prima parte, il racconto si snoda attorno agli antefatti che ci portano a Iliade; poi c’è un momento in cui il gioco finisce per poi, nella seconda, arrivare a giocare con il corpo, ad aprire lo spazio. Nella seconda parte il pubblico si disgrega, i ruoli fioriscono. Per quanto riguarda le fisicità, mi piaceva per Ecuba, madre dei troiani, lavorare con Daria Menichetti e il suo corpo asciutto, austero; un’altra figura femminile, ma con una linea un po’ più morbida, è quella un’altra danzatrice, Marianna Miozzo, ovvero Andromaca: il femminile che ama, che accoglie. Per i ruoli maschili, mi piaceva associare a Ettore un certo slancio, un corpo longilineo, atletico (Marco Massarotti); e ad Achille (Angelo Argentina), una fisicità con una statura più bassa, un volto più rancoroso, perché l’”ira” è di fatto il suo tema. Omero per descrivere un personaggio non riesce a usare i meccanismi posteriori alla nascita della tragedia greca: la scrittura di Iliade è anteriore. Gli epiteti che utilizza sono linee tematiche che fanno procedere l’intreccio.

Ne “La nascita della tragedia”, Nietzsche sostiene: «Senza mito ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura: solo un orizzonte delimitato da miti può chiudere in unità tutto un movimento di civiltà (…)». Sulla base di questa definizione, possiamo oggi credere che, non solo per i Greci, ma anche per i contemporanei, il mito non sia, banalmente, un racconto fantastico, ma qualcosa di cui si ha bisogno? Perché tu avverti la necessità di raccontarlo? 

Il mito va oggi raccontato perché è uno specchio in cui dobbiamo imparare a non smettere di guardarci. Non ha una morale, ma porta con sé un’etica che parla al genere umano. Mi viene in mente De André ne “L’amico fragile”: «Potevo assumere un cannibale al giorno per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle». Il mito fa lo stesso, insegna all’uomo la sua distanza nel mondo, ricordandogli che nessun uomo, nessuna civiltà è un’isola. Perché l’essere umano se ne dimentica, si separa e si apparta nell’individualismo assoluto, ma c’è una matrice, il mito, che può ricordargli che “bisogna stare insieme”. Se non si conoscono i miti della propria civiltà, credo (e qui mi trovo in accordo con Nietzsche) che non si possa conoscere neppure se stessi. Sarebbe necessario trasformare in mito anche le storie più recenti. Se la Seconda Guerra Mondiale fosse un mito, sicuramente ce la ricorderemmo meglio, e forse oggi non ci troveremmo nella condizione infelice in cui sentiamo di trovarci. L’uomo tende a dimenticare la sua finitudine, il fatto che il suo valore è infinitesimale rispetto all’universo intero. Questo il mito ce lo ricorda costantemente. Dove l’uomo finisce cominciano gli dèi. Dove anche gli dèi finiscono, comincia il Fato. E il Fato è un disegno universale, sopra ogni cosa, che dalla sua distanza dall’uomo ne riduce ulteriormente il valore. Tutto questo, ancora oggi, può essere incredibilmente utile come matrice di pensiero su cui fondare il nostro essere.



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