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“Se il teatro rimane un luogo di autoperpetuazione non ha senso di essere”. Intervista a Enrico Castellani di Babilonia Teatri

Andrea Zangari

Calcinculo è l’ultimo lavoro di Babilonia Teatri, alias Enrico Castellani, Valeria Raimondi Luca Scotton. Ha debuttato a fine agosto a Bassano del Grappa, all’Operaestate Festival Veneto, poi è arrivato a Roma in occasione di Short Theatre, con due repliche l’8 e il 9 settembre; pièce a tratti colorata e pop, a tratti cupa e rabbiosa come un calcinculo prima acceso nel clamore picaro di un luna park d’estate, poi spento e solitario nel cuore della notte. Lo spettacolo segue una partitura doppia: le canzoni di Valeria Raimondi e i monologhi di Enrico Castellani.
Sulla scena materiali eterogenei e quotidiani, della quotidianità politica e sociale. Per Babilonia Teatri non ha senso una rappresentazione che non sia specchio della realtà: anche il discorso mediatico, per quanto colto nella sua critica inflessione individualistico-consumistica, deve diventare materiale di scena. Così il gusto trash della sagra di paese tinta di valenze politiche, o la triste ironia d’una sfilata per cani che reali e abbaianti calcano il palco-passerella, vengono spremuti nella loro animale complessità, nelle loro pulsioni aggressive e nichilistiche, per trarne una poetica del camp padano-veneto. Il teatro si presta al linguaggio orizzontale che è anche dello spettacolo mediatico, accettando di vivere un territorio sporco, pulsionale, in cui il limite paradossale è ogni evento massimamente catalizzatore come, provocatoriamente, gli attentati terroristici dell’ISIS. Domina il vocabolario della crisi psichica: «la mia depressione ha chiesto il part-time» – canta Valeria Raimondi – «Non gliel’hanno dato». C’è tuttavia una luce ventilata in qualche attimo di grazia, nella risata sarcastica, nel condividere una visione. Nello stare semplicemente tutti a teatro, uniti per il tempo di un giro sul calcinculo. Ne abbiamo parlato con Enrico Castellani.

“Calcinculo” al festival Operaestate, sezione B.Motion, di Bassano del Grappa. Foto di Francesca Marra

Come sono andate queste prime repliche di Calcinculo? A che punto della vita dell’opera siete arrivati a presentarlo qui a Short Theatre?

Siamo soddisfatti dello spettacolo per quello che abbiamo messo in scena finora, del suo contenuto e della sua forma. Il lavoro di avvicinamento è stato complicato, soprattutto perché è la prima volta che usiamo la musica in questo modo, ovvero scrivendo il testo per canzoni che sono state poi musicate da Lorenzo Scuda. Ci piacerebbe tra l’altro trovare il modo di farne un prodotto autonomo.

Nell’economia dello spettacolo, qual è il ruolo della musica?

Abbiamo scelto una forma di spettacolo ibrida fra teatro e concerto, con un’alternanza di monologhi miei e di canzoni cantate da Valeria, soprattutto per trovare una lingua che riesca a parlare al più vasto pubblico possibile. Ma anche per trovare uno strumento che racconti un mondo in cui la parola nuda non è forse più sufficiente. La canzone in generale è uno strumento per arrivare ad un’interpretazione senza veli: quando si canta si è inchiodati a esser se stessi. Un certo tipo di musica, inoltre, rimanda al mondo della periferia, quella fisica e culturale di cui ci interessa portare in scena la realtà, “pop”.

In che modo Calcinculo rende grazie dell’evoluzione del vostro percorso artistico?

In un certo senso lo spettacolo ci riavvicina alle nostre origini, a un confronto con quello che non ci torna nel mondo che abbiamo attorno, tentando una rappresentazione quanto più diretta e non filtrata della verità del nostro stare. Che non è una verità di natura, o psicologica, ma una crudezza data proprio dallo stare in scena. In scena siamo solo io, Valeria e Luca Scotton, senza altri attori, un po’ come nei nostri lavori degli inizi. Sul piano contenutistico, invece, pensando agli spettacoli precedenti, c’è la presa di coscienza che la rabbia e lo sdegno non siano, forse, più sufficienti. Ci vuole autoironia per trovare la possibilità di abitare il nostro tempo senza riferimenti. C’è ironia nella sfilata di cani che portiamo in scena, perché non volevamo limitarci a dire che manca la bussola per capire e indicare la bellezza, che c’è disorientamento nel momento in cui nella vita provincializzata di molte persone sole, l’animale è elevato a dignità umana. Sul piano metodologico invece c’è una certa continuità: partiamo confrontandoci con Valeria da una scelta di temi e materiali che ci interessano, poi io mi occupo della scrittura, che però poi è pesantemente riadattata alla scena, che è uno strumento decisivo per dire quali dispositivi vanno e quali no. Spesso troviamo elementi del tutto nuovi nel processo di prova della rappresentazione; ad esempio, gli estintori che Luca mi mette davanti durante un mio monologo.

“Calcinculo”, foto di Eleonora Cavallo

Le parole, le luci, le musiche di Calcinculo esprimono una grande rabbia verso la realtà, quella politica e quella psicologica, ma anche una disillusione verso il teatro. «Ho deciso di smettere di fare teatro», dici in scena. È una provocazione o una vera frustrazione?

Secondo noi il teatro ha senso nella misura in cui è lo specchio della realtà. Non ha senso una forma di teatro che non si occupi del suo tempo, o che faccia una museografia del teatro. Un teatro di finzione, di filologia, in costume. Perché in quel caso smetterebbe di metterci in contatto con il mondo. Sarebbe superato dalla misura spettacolare di eventi anche tragici come quelli che citiamo in scena, fino al paradosso del terrorismo dell’ISIS. Questi sì valgono come provocazione, come limite fra realtà e rappresentazione dove non c’è quasi più distinzione in questo gioco di riflesso. È più interessante la paura del borghese verso il suo piccolo mondo domestico e familiare: apparentemente qualcosa di irrilevante, di non degno dell’attenzione del teatro, da confinare nello spazio lontano della provincia; ma per fare comunità il teatro deve proprio partire dalle province.

Cosa ti piacerebbe che Calcinculo lasciasse al pubblico?

Mi piacerebbe che le domande che lo spettacolo apre, e di cui si nutre, possano tornare vive in ogni ascoltatore. Che si incida un modo diverso di pensare al teatro, come uno strumento sociale di riferimento per le comunità che abita, cosa che oggi non è abbastanza. Se il teatro rimane un luogo per il soddisfacimento di un certo tipo di borghesia, o di autoperpetuazione, non ha senso di essere. Penso inoltre che debba restare il valore positivo di eventi e realtà che facciano rete, come Short Theatre, anche a livello europeo.



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