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Il teatro ai margini ma non marginale: la compagnia Laminarie racconta le periferie del Mediterraneo

Pietro Perelli

Febo Del Zozzo, direttore della compagnia Laminarie, si occupa ormai da diversi anni del progetto ECUBA porti e periferie del Mediterraneo che sintetizza la vocazione di Laminarie a pratiche di ‘ravvicinamento’: nei processi produttivi della compagnia è fortemente riconoscibile, infatti, una necessità di mettersi in relazione e avvicinarsi a pubblici nuovi. In questo 2017 ha toccato e toccherà città come Tirana, Malaga e Nicosia. Lo abbiamo contattato per farci raccontare da lui questa esperienza e il rapporto tra Laminarie e la periferia.

 

Visto che si è da poco conclusa l’esperienza a Tirana, ce ne può parlare?

Sicuramente la tappa a Tirana è stata molto importante perché il contatto con l’Albania e in particolare con il teatro albanese è stato molto interessante in quanto questa realtà ha fame di conoscere come sono i nuovi linguaggi del teatro. C’è stata quindi grande curiosità rispetto al nostro lavoro e questo ci ha dato grande motivazione per fare al meglio le cose. Il lavoro, anche se non spetta a me dirlo, è andato molto bene. Abbiamo avuto la possibilità di osare di più perché c’era grande disponibilità. Inoltre, da parte mia sono particolarmente stimolato da queste realtà perché c’è un desiderio di comprensione che mi affascina, proveniente da una sorta di purezza di fondo.

 

Siamo ormai al terzo anno di progetto Ecuba. Come si sta evolvendo?

Il proposito iniziale era quello di mettersi continuamente in discussione e cambiare di volta in volta a seconda delle necessità di chi ci si trova di fronte. Ci sono pochi punti fermi, la scenografia, un costume e un elemento scenico poi tutto il resto lo modifico anche in base a chi mi trovo di fronte. Questa è una peculiarità del progetto che è partito con lo scopo di non avere una regia fossilizzata ma, al contrario, un continuo movimento che abbia la capacità di contestualizzarsi nel luogo in cui va.

 

Nel titolo del progetto risuona il nome di Ecuba, personaggio mitologico. Come si è scelto questo nome e che legame c’è tra nome e progetto?

Ecuba è la regina di Troia, moglie di Priamo, dopo la guerra ha perso tutto. Non credo che sia attualizzabile nella narrazione ma, avendo lei perso tutto, vi sono molte similitudini nello stato d’animo con alcune situazioni contemporanee. Pensiamo a ciò che succede ogni giorno nel Mediterraneo, anche lì vi è pieno di persone che hanno perso tutto. Il progetto ha infatti molto a che fare con questo mare e il tentativo è di creare una sorta di similitudine tra la tragedia attuale e quella classica.

 

Nella tappa di Malaga parteciperete al Festival de Cine Italiano come evento off. Tale festival ha come tema proprio la migrazione. Per voi che come Laminarie avete sede in un quartiere periferico come il Pilastro, che legame, che rapporto c’è, tra i quartieri periferici e la migrazione nella vostra esperienza?

Il Pilastro che è il quartiere dove si trova DOM è quello con una percentuale di migranti più alta ma anche quello con l’età media più bassa rispetto al resto della città e in cui la percentuale di stranieri nelle scuole è altissima. Noi ci troviamo quindi ad agire in un quartiere che ha molto a che fare con la migrazione.

 

Durante il percorso del progetto Ecuba, porti e periferie del mediterraneo vi è capitato spesso di lavorare con migranti?

A Marsiglia si era organizzato tutto perché partecipasse un gruppo di richiedenti asilo poi a causa di loro problemi non è stato possibile. In molte occasioni vi è stata la partecipazione di stranieri, non di rifugiati, la maggioranza dei gruppi di lavoro è solitamente formata da “autoctoni”.

 

Laminarie ha sede in un quartiere periferico, e il progetto che state portando avanti ha un legame molto stretto con luoghi periferici. Cosa vi lega a questi luoghi?

Io legherei alla periferia urbanistica anche quella teatrale. Noi abbiamo scelto, in tempi non sospetti, di stare ai margini perché ci sembrava e ci sembra che alcuni circuiti siano auto-referenziati e autoreferenziali, chiusi in se stessi. Sentivamo il bisogno di trovare nuova linfa per il lavoro e siamo andati in Bosnia dove siamo rimasti per un anno e mezzo tra la fine dell’eccidio e il periodo seguente. Lì eravamo fuori dai circuiti classici del teatro ma anche in una periferia, in un luogo marginale. Poi quando abbiamo avuto occasione di trasferirci al DOM ci siamo sentiti subito a casa. Abbiamo aperto il teatro alla comunità proponendo anche spettacoli di ricerca estrema per cui molto ostici per chi non è abituato. Questo pubblico, grazie alla sua purezza, è linfa per il teatro.

 

Qual è il ruolo politico (in senso classico) del teatro in questi luoghi marginali?

Più che marginali io direi al margine. In questo momento storico della polis non credo siano per nulla marginali, al contrario sono molto importanti. Sono luoghi in cui solitamente c’è più vita culturale rispetto a un centro molto ricco e saturo di eventi, mentre nelle periferie vive gente che ha una visione dell’arte molto quotidiana. C’è una questione politica ma non è volutamente cercata, noi non facciamo un teatro per la marginalità, al DOM viene un pubblico molto eterogeneo, diviso tra chi non è mai stato a teatro e ne è studioso e che partecipa a rappresentazioni anche nei cosiddetti teatri istituzionali. Molti si sono stupiti del fatto che al DOM puoi vedere vari tipi di pubblico, non ci sono sempre le stesse facce. Questo è quello che abbiamo seminato e speriamo di portarlo avanti portando nuove generazioni a teatro. Per me il teatro è politico perché è nella polis, e perché lo spazio in cui lavoriamo è del Comune ed è quindi aperto a tutti.

Quale potrebbe essere il ruolo dell’arte in quartieri al margine in cui spesso si creano situazioni di disagio tra “autoctoni” e stranieri che spesso le autorità tendono a voler risolvere con la forza?

Noi non siamo degli educatori ma abbiamo preso da subito contatto con gli operatori sociali del territorio con cui abbiamo una forte relazione, cercando di proporre attività relazionandoci a chi si occupa di queste cose sul territorio. Noi non educhiamo ma diamo un servizio culturale. Ciò non vuol dire semplicemente fare proposte senza preoccuparsi di ciò che si ha intorno, ma prendere contatti, creare una rete con chi si occupa del sociale senza prenderne il posto. Adesso, facendo un esempio, c’è la tendenza a far fare agli insegnanti teatro nelle scuole. Senza nulla togliere alla loro bravura, sarebbe un po’ come se io mi mettessi a insegnare e questo, io credo, crea confusione. Se sul territorio ci sono delle potenzialità basta entrarvi in relazione e farle fruttare. Al Pilastro è così, si è riusciti a creare una rete tra noi, il polo scolastico, le associazioni che si occupano di integrazione. Alcuni anni fa sono venuti alcuni ragazzi a vedere uno spettacolo ostico su Simone Weil; all’inizio sbuffavano e sembravano annoiati, poi si sono lasciati prendere e lo hanno guardato con attenzione: questi per me sono grandi successi, perché vuol dire che sei riuscito a creare e a dare spazio alle relazioni senza pensare che immettersi in un territorio voglia dire semplicemente ci sono io e ho già tutto ciò che serve; sono gli altri a dover venire da me.

 

Dalle sue parole si capisce che il vostro non vuole essere teatro sociale ma teatro soltanto. Perché?

Perché si tende a dare delle categorie: teatro di ricerca, teatro sociale, teatro classico… io invece ritengo che il teatro sia “teatro”. Il teatro sociale in particolare ha assunto la particolarità di essere considerato teatro esclusivamente per problemi attinenti alla sfera del sociale, al di là della sua componente artistica. Io invece sento di fare teatro d’arte: tutti i progetti, compreso Ecuba, non sono considerabili teatro sociale anche se sicuramente hanno a che fare, nelle tematiche che affrontano, con il sociale. Ecuba, ad esempio, ha a che fare con la quotidianità, con chi perde quotidianamente tutto e viene sconfitto, o dal mare o dalle guerre.



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