Cinema

Sofia Coppola in Focus: retrospettiva cinematografica di una figlia d’arte

Valentina Esposito

Figlia d’una famiglia dedita al cinema, Sofia Coppola segna un altro successo di pubblico e critica con The Bling Ring, ultimo di una ormai brillante serie.

Dal quartiere inquieto del Michigan che racchiude il dramma segreto delle sorelle Lisbon (Il giardino delle vergini suicide), passando per una Tokyo che si fa metropoli dell’anima (Lost in Traslation), e una breve fermata nel passato per ripercorre l’adolescenza tormentata della Delfina di Francia (Marie Antoinette), Sofia Coppola si è fermata a Los Angeles prima con Somewhere per esplorare e ricucire i tasselli di un rapporto inesistente tra un padre e una figlia, e poi con The Bling Ring, storia di un gruppo di adolescenti che vive derubando le case di celebri star, a breve nelle nostre sale.

Sofia Coppola ha potuto respirare aria di cinema sin da bambina: figlia dell’iconico regista Francis, prima di arrivare alla regia ne ha fatta di strada esplorando diversi campi dell’arte per cercare la forma che le fosse più appropriata ad esprimere il suo notevole talento. Ad un anno è sul set de Il Padrino, a dodici è nel cast di Rusty Il selvaggio e a quindici in Peggy Sue si è sposata, tutti firmati dal padre. Inizia poi l’interesse per la sceneggiatura: prende parte a quella di Life Without Zoe episodio di New York Stories che vede alla regia il trio Woody Allen, Martin Scorsese e Francis Ford Coppola. Quest’ultimo film  segna anche il suo appassionante rapporto con la moda, firma infatti i costumi del film, e crea una collezione di abiti interamente disegnata da lei. Alla ricerca costante di un suo posto nella fabbrica dei sogni, rivitalizzata dalla New Hollywood di cui lei anche se piccina ne ha potuto cogliere le suggestioni, si divide anche tra i ruoli di fotografa e conduttrice tv.

Il 1998 è però l’anno di svolta con Lick the Star: cortometraggio in bianco e nero che mostra già un po’ delle tematiche a lei care, come il mondo dell’adolescenza, la condizione di estranei ed isolati nel proprio mondo ordinario e un frequente disagio interiore che si esprime in lunghe camminate verso uno sconosciuto altrove. La sua dimensione artistica diviene allora la regia, nella quale riesce a riversare una capacità di osservazione e immaginazione allenate sin dalla tenera età nei viaggi da un luogo all’altro al fianco dell’impegnato papà. Nasce così un rapporto viscerale tra osservazione e scrittura che renderà la costante vita/cinema sempre presente nei film della Coppola, che racconta sempre un po’ di se stessa e che la porterà spesso a scrivere anche la sceneggiatura dei suoi film.

Il giardino delle vergini suicide è l’unico suo film ad essere nato da un adattamento, il libro Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides. Firmato dalla colonna sonora degli Air, il film racconta la storia di cinque sorelle costrette a vivere un’adolescenza repressa per la rigida educazione inflitta da una madre autoritaria. Già qui lo stile della Coppola inizia a prendere forma: il rapporto sincretico tra i personaggi e il loro ambiente, l’uso particolare che la regista fa della musica, in genere sempre oscillante tra indie e new wave, la tendenza a non privilegiare mai del tutto un solo protagonista ma offrire uno sguardo corale. Ciò che più di tutto inizia a emergere è un’esigenza particolare dei suoi personaggi, che trae le sue radici da quel vecchio cinema tra gli anni ’50 e ’60. Fuggire verso qualcosa di ignoto per ricominciare e lasciarsi alle spalle quel disagio interiore che resta inconciliabile con il mondo esterno. E’ quel posto nel mondo che cerca la Charlotte (Scarlett Johasson) di Lost in Traslation, che porta a casa l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale. L’incomunicabilità nei rapporti affettivi si specchia nella sensazione di sentirsi stranieri in una città sconosciuta, tanto che la musica invadente sembra quasi voler colmare i silenzi tra i personaggi e conciliarne gli sguardi.

Originale e molto personale è invece Marie Antoinette: la regina più discussa della Francia del diciassettesimo secolo viene dipinta come una teenager dei nostri tempi, viziata, coccolata, dedita al lusso e alle feste più ricercate, ma dentro sorretta da un fragile equilibrio mentre sulle sue spalle pesano le responsabilità di un regno, di un popolo e della Storia. La musica qui assume un ruolo fondamentale: alternandosi tra un melanconico pop e un leggero rock, note e melodie raccontano al posto delle parole lo stato d’animo della protagonista, estraniandosi da ogni connotazione temporale e spaziale provocando un suggestivo gioco anacronistico.

Somewhere, è il penultimo lavoro della regista americana che ha per protagonista l’altalenante vita dell’attore Johnny Marco (Stephen Dorff). Ricordando un’aurea da rockstar decadente, il ragazzo vanta una carriera invidiabile e all’apice del successo, ma certo non può dirsi lo stesso della sua vuota vita privata colmata da donne, alcool e un rapporto mancato con la figlia Cleo. Il film, che si aggiudica il Leone d’Oro a Venezia 2010 come miglior film, richiama le atmosfere sospese e d’attesa di Lost in Traslation anche riscegliendo l’albergo come principale location, il noto Hotel Chateau di Los Angeles. In questo film il dialogo immagini-musica prende totalmente il sopravvento sulle parole, trasformando il sottinteso melodramma in una leggera e lenta esplosione verso il finale e rinunciando ad ogni possibile adeguamento ai canoni tradizionali del genere.

Questo rapporto fortemente autoriale con le sue creature cinematografiche che hanno al centro l’individuo e i suoi tentativi di sintonia con il mondo e il tempo circostante, contribuiscono a rendere unico e personale lo stile registico di Sofia Coppola, facendone un fiore scintillante nell’era dei registi indipendenti.



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