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“A chi si rivolgono le brutte copie di un maestro?”. Intervista all’attore e regista Carmelo Alù, in scena con “Filottete” di Letizia Russo

Gertrude Cestiè

Ieri sera, al Teatro Studio “Eleonora Duse”, a pochi passi da Piazza di Spagna, ha debuttato Filottetesaggio di diploma dell’allievo regista dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” Carmelo Alù. Lo spettacolo è una riscrittura del mito classico a firma della drammaturga romana Letizia Russo (insignita nel 2001 del Premio Tondelli e nel 2003 del Premio Ubu per la migliore novità drammaturgica). A interpretarlo, Paolo MusioAlvise Camozzi, Marina Occhionero e lo stesso Alù.

Abbiamo domandato al giovane diplomando un confronto sulla chiusura di un percorso di formazione che, mentre lascia dietro un insieme di esperienze, insegnamenti ed errori fondamentali, apre su un futuro di comprensione e riscoperta della propria identità artistica.

Filottete replicherà fino al 21 dicembre.

 

Con il personaggio di Filottete parliamo di un escluso, di un dimenticato, un outsider in un certo senso. Perché mettere in scena proprio Filottete?

La scelta è stata a monte, quasi naturale per me, poiché sono entrato in Accademia presentando un progetto di regia su una tragedia greca e mi piaceva l’idea di concludere questo percorso con un altro classico greco, chiudendo una sorta di cerchio.

Personaggi come Filottete sono una sfida, un po’ dimenticati dai contemporanei, anche a ragione direi, perché la tragedia in sé di Filottete ha delle tematiche molto lontane da noi e, anche nel caso di una riscrittura, ho compreso da subito le difficoltà di riuscire a costruire un’identità, fatta di elementi del nostro tempo.

Filottete mi piaceva proprio in quanto personaggio dimenticato, non solo nella trama ma anche nel suo destino, che attraversa secoli di tradizione letteraria e teatrale. Nonostante, infatti, il Filottete sia uno dei miti più riscritti di tutti i tempi, questo protagonista non è mai riuscito ad avere un posto nella memoria degli uomini, quindi anche per questo mi ha stimolato, come sfida: riuscire a capire come mai ci siamo dimenticati di questo personaggio e del suo mito.

Filottete è a tutti gli effetti un soldato dimenticato, che però improvvisamente diventa la chiave di volta per porre termine a una guerra che sembra non dover finire mai. Una profezia rivela che lui è l’unico che può porvi fine; lui, e il suo arco.

Questo aspetto si è rivelato estremamente interessante: spesso quello che noi riteniamo essere una cosa dimenticata e poco importante, in realtà non solo ritorna, ma rivela anche di avere un valore che va ben oltre la nostra immaginazione.

 

Dietro questa riscrittura del dramma sofocleo c’è la penna di Letizia Russo, con cui hai già collaborato in Edipo Re e in Un anno con tredici lune di R.W. Fassbinder. Cosa ti ha spinto ancora una volta a lavorare con questa drammaturga?

Sicuramente una stima enorme per lei e, soprattutto, per il suo modo di lavorare, che è un modo che io personalmente non ho mai trovato in nessun’altra figura della sua categoria. Letizia lavora veramente fianco a fianco con te, ti sa ascoltare e ti sta molto vicino nella fase creativa, per cui non riuscivo a immaginare questa fine di percorso, questo saggio di diploma, senza il suo apporto.

Lei, inoltre, lavora molto sugli attori, e su questo abbiamo un’idea molto simile come punto di partenza rispetto al teatro.

Oggi, mentre abbiamo dei prodotti di grande qualità in televisione, le serie tv e il nuovo cinema d’autore, il teatro rischia di perdere un po’ i suoi connotati, il suo motore principale; continua a esistere perché ha una forza ineluttabile tutta sua, però il rischio dell’allontanamento dal teatro dello spettatore, di cui si parla molto negli ultimi tempi, è un fatto reale e dipende forse non tanto dal buono o cattivo gusto dello spettatore, quanto dal fatto che spesso quando si va a teatro ci si ritrova di fronte, in qualche modo, sempre lo stesso linguaggio, gli stessi codici, che si possono trovare anche in televisione o al cinema. C’è oggi un modo di raccontare le storie che rischia di essere uguale a se stesso, e quindi, a parità di emozioni per lo spettatore, il cinema e la televisione lavorano sull’immagine in un determinato modo, con il rischio, per il teatro, che esso vada perdendo un po’ il suo valore, il suo peculiare linguaggio. Questo è dovuto, secondo me, al fatto che la nuova regia spesso ha accantonato la figura dell’attore. Negli ultimi anni la figura del regista è diventata sempre più forte, mentre invece la figura dell’attore è diventata più opaca. Ci sono ancora grandi attori, ma sempre a servizio di grandissimi registi.

Sia io che Letizia, invece, abbiamo rispetto a questo discorso un punto di vista comune, più vicino all’attore che all’idea di regia. Ci preme molto il raccontare delle storie, ma queste storie sono raccontate da esseri umani, da uomini, da attori. C’è proprio una ricerca a favore dell’attore alla base: tutto quello che scrive Letizia lo scrive sapendo che deve essere messo in scena da attori e sapendo quali sono gli attori che restituiranno le sue parole sul palco. Di conseguenza non c’è mai questa distinzione forte tra la pagina scritta e la messa in scena. C’è invece una pagina scritta che non vede l’ora di essere messa in scena da quella persona lì, per cui è stata scritta. Questo per entrambi è stato un punto di incontro, una chiave molto importante per il nostro lavoro.

Non esiste un personaggio, esiste altresì un attore che farà quella parte, ed è così che Letizia lavora, partendo da questa “regola”. Ad esempio, nel nostro caso Filottete è interpretato da Paolo Musio: ci si è domandati, quindi, fin da subito cosa potesse dare Paolo al nostro Filottete. Inevitabilmente, l’attore in scena dovrà rendere visibile questo scarto, e dunque, se deve farlo, perché non lavorare già in fase di scrittura in questa direzione?

 

Parli di ruolo dell’attore e ruolo del regista: in questa messa in scena tu sei entrambe le cose, essendoti formato prima da attore e poi come regista.

Com’è stato conciliare nella pratica i due ruoli che hai scelto per questo spettacolo?

Io personalmente nasco come attore [il percorso artistico di Alù ha avuto inizio come attore all’Accademia del Dramma Antico di Siracusa ndr] e avevo recitato in altri lavori in cui ero regista, ma sempre piccole parti, non ruoli grossi. Quindi volevo misurarmi fino in fondo con questa duplicità, proprio perché credo fortemente in un teatro fatto di attori e non esclusivamente di registi. C’è stato uno “spostamento” in me molto forte, che non pensavo di vivere: la difficoltà di lavorare sui due piani. Fondamentalmente lo spettacolo o te lo vivi o te lo guardi e, per l’attore-regista, purtroppo, ciò significa doversi porre nella condizione di “vivere nella cosa” per stare insieme agli attori in quel momento presente e, allo stesso tempo, “guardare la cosa”, da fuori. E anche se questo lavoro è andato molto bene, sia perché è stata chiara la riscrittura sia perché avevo studiato il testo per molto tempo, è stato comunque difficile.

Carmelo Alù, Paolo Musio, Marina Occhionero. Foto di Riccardo Freda

 

Parlaci del personaggio che interpreti in Filottete.

Io interpreto Neottolemo, che anche nella tragedia originale è l’eroe in formazione. Un ragazzo che è lì e si interroga su cosa ne sarà di lui e che cosa succederà; un piccolo uomo con dei valori che la realtà gli metterà in discussione.

“Neottolemo” in greco significa “giovane guerriero”; credo che oggi essere un guerriero significhi, in un certo senso, attraversare il percorso che s’intraprende, arrivare alla fine e capire perché si è arrivati lì. Che cosa fa oggi di un giovane un eroe? Mi sembra una domanda urgente, che forse ognuno si pone nella vita di tutti i giorni, nella sua lotta quotidiana. Che cosa bisogna fare per diventare un eroe? Bisogna usare la forza o l’intelligenza? Bisogna pensare al proprio passato, caricarsi ognuno il proprio peso?

Mi sembrava che teatralmente io avessi dentro di me tutte queste domande, avendo fatto l’attore prima, e l’assistente poi, a registi di una tradizione enorme, Mauro Avogadro su tutti, che seppur diversi tra loro sono legati a un tipo di teatro che oggi è la grande tradizione italiana. E queste domande sono le stesse che si pone Neottolemo, nella tragedia e anche nella riscrittura di Letizia: quali sono le doti di un eroe? Quali sono le doti di un giovane oggi che lotta tutti i giorni? Deve essere intelligente? Forte? Deve essere una persona furba, scaltra? Insomma, tutto quello che viviamo e ci domandiamo nella vita, tra i mille consigli che ci vengono dati, tra chi ci invita a essere furbi, chi forti, chi altro.

 

Questo è uno spettacolo che chiude un tuo percorso accademico, un percorso di formazione come dicevi. Con questa chiusura cosa si apre per te? Che cosa ti aspetti per il futuro? 

Partiamo dal presupposto che i tre anni di Accademia sono stati bellissimi, pieni di belle persone. la vera bellezza, però, risiede nell’aver commesso tanti errori: ci sono molte cose in cui credevo rispetto al teatro, che invece poi la realtà mi ha dimostrato essere diverse. L’Accademia è di sicuro un percorso non facile, l’accesso è limitato: mi sono sempre sentito un privilegiato perché obiettivamente non tutti hanno la possibilità di fare quello che fai e lavorare con maestri come Thomas Ostermeier, Massimiliano Civica, Emma Dante, Arturo Cirillo, Giorgio Barberio Corsetti, Lorenzo Salveti; però allo stesso tempo ti accorgi che in realtà quello che tu stai facendo è un percorso artistico che ti pone davanti al rischio di perdere di vista chi sei tu e dove puoi arrivare; quindi, di perdersi, non tanto nell’imparare a fare teatro in senso assoluto, perché ognuno dei maestri incontrati ha una sua chiave diversa nel farlo, quanto riguardo la propria identità e il proprio modo di fare teatro. Perciò, alla fine del percorso, comunque utile perché ti dà basi e riferimenti importanti, bisogna lasciarsi andare, riprendersi il rischio di dire “io non ho dei maestri”. Il pensiero maturato in questi tre anni, l’insegnamento più grande, è stato questo: avere voglia di dire “non voglio avere maestri”, perché i tanti maestri che ho avuto sono diventati tali proprio perché non hanno seguito una corrente, ma l’istinto, il desiderio di rottura di schemi e tradizioni, una voglia, una forza creatrice capace di costruire un’inimitabile, autentica identità.

Per il futuro, quindi, ciò che mi aspetto e che vorrei è riuscire a capire veramente che tipo di teatro mi interessa fare. Ci sono dei punti già fissi per me, come appunto il lavoro con l’attore e lo studio dei testi, però allo stesso tempo sento sempre che il teatro mi scivoli un po’ di mano.

Una domanda al centro di molti artisti è proprio quella sull’essenza del teatro: che cosa esso sia.  Noi crediamo che esistano performance, teatro di ricerca, teatro di prosa. In realtà, il teatro più passa il tempo più scappa da queste logiche di definizione.

Quello che mi aspetto, dunque, è di riuscire a capire effettivamente come sfuggire alle categorie ed essere qualcuno che possa portare qualcosa di nuovo, non perché non ci sia nulla e il teatro stia aspettando me, è chiaro, ma al contrario perché è stato detto molto e in tanti modi e alla fine ci si chiede se io debba essere l’allievo di questo o di quest’altro maestro. In tutto questo, che cosa resta della mia identità? Per esempio, ho una grande stima e una grande ammirazione per Massimiliano Civica che nel mio percorso è stato fondamentale, credo sia il più importante pedagogo che al momento abbiamo in Italia, ma di Massimiliano Civica ce n’è uno, ed è giusto che sia così. A quale spettatore si rivolgono le brutte copie di un maestro? Quindi, se mi aspetto qualcosa dal futuro è questa: prendere tutto ciò che ho imparato, dimenticarlo, rimboccarmi le maniche e ricominciare ancora una volta da quello che sono. 

 

 

 

 

 

 



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