Arti Performative Focus

“Pane, latte e lacrime”: una memoria neorealista nel teatro contemporaneo da De Sica a De Silva

Francesco D’Asero

Excusatio non petita, accusatio manifesta: chi scrive queste poche righe ha il difetto di essersi occupato sistematicamente, per interessi di studio e di ricerca, di cinema e molto poco di teatro, con il risultato di aver riservato all’arte di Shakespeare e di Goldoni un ruolo privilegiato in quelle pratiche di piacere soggettivo che più tipicamente definiamo con il nome di “passioni personali”.

Ciò detto, esistono casi particolarmente emblematici, conseguenze felici della commistione plurale di culture formali differenti, nei quali gli strumenti offerti dalla conoscenza critica o cinefila dei capitoli più significativi della storia della settima arte nostrana possono contribuire all’analisi delle componenti storiche, sociali e identitarie veicolate da un testo drammaturgico e dalla sua rappresentazione scenica.

Nella fattispecie, volendosi avventurare nell’osservazione di un oggetto teatrale già di per sé complesso e composito, la ricezione di uno spettacolo come Pane, latte e lacrime di Veronica Liberale, per la regia di Pietro De Silva (andato in scena tra il 2 e il 7 maggio presso il Teatro Cometa Off di Roma), non può scindere – già dal suggestivo titolo che richiama all’immaginario comenciniano, in parte anche risiano, dei vari Pane, amore e… – da un legame profondo con quell’esperienza culturale, progenitrice di ogni fenomeno rivoluzionario legato alla modernità del linguaggio filmico italiano, incarnata dal neorealismo cinematografico.

Ma facciamo un passo indietro. Anche perché parlare di eredità neorealiste in contesti mediali postumi alla stagione eroica di De Sica, Rossellini e Visconti è come gridare “al lupo, al lupo”. Pane, latte e lacrime rappresenta in prima istanza un testo dal concreto valore testimoniale, capace di trasportare lo spettatore nella Roma proletaria del quartiere San Lorenzo, palcoscenico dello straziante bombardamento del 19 luglio 1943. A coadiuvare un maturo grado di consapevolezza storica, già in partenza raggiunto dalla pièce, è la messa in scena di De Silva, attore e regista non affatto nuovo al racconto degli orrori della guerra, materia di riflessione presente a più riprese nella vasta e poliedrica carriera dell’artista (dalla celebre interpretazione ne La vita è bella sino ad arrivare al recente documentario La macchina delle immagini di Alfredo C.). È proprio la regia, infatti, a conferire forza espressiva alla parola scritta mediante una compagnia di giovani – per non dire giovanissimi – che compone un ensemble corale particolarmente brillante nel coniugare sfumature umoristiche alla tragedia della vicenda reale portata in scena.

Quest’ultimo aspetto, di stampo solo apparentemente ossimorico e contraddittorio, rappresenta il senso profondo e la potenza comunicativa di questo spettacolo: nel tentativo di far tesoro degli insegnamenti che Luigi Zampa tramanda ai posteri con Vivere in pace (titolo dalla dote evocativa che ben si sposerebbe anche alla narrazione teatrale qui esplorata e ai desideri profondi dei personaggi che la abitano), che diffidano dal considerare i sentimenti umani univoci e pervasi da dinamiche manicheistiche, Pane, latte e lacrime raccoglie la sfida di una cronaca della guerra novecentesca (i quali echi foschi risuonano quanto mai attuali) utilizzando un registro dai toni non esclusivamente drammatici e concretizzandone un’opera doppiamente preziosa, che congiunge la storia e la memoria nazionale con la tradizione immaginifica del cinema italiano. Un elemento, quest’ultimo, di estrema pertinenza se si pensa che l’assimilazione della lezione neorealista e dei suoi stilemi viene avvalorata dall’utilizzo di testimonianze reali, riportate attraverso espedienti di richiamo sonoro o, in alcune peculiari repliche, tramite la partecipazione attiva di superstiti dell’attacco aereo del ’43.

La Mamma Roma di pasoliniana memoria, ritratta nei suoi squarci materiali e sociali, non funge unicamente da collante delle varie anime che affollano le strade e le piazze del rione urbano raffigurato, ma si fa vero e proprio simulacro delle loro esistenze, in un processo reciproco in cui la microstoria dei protagonisti si incontra e si fonde con la macrostoria collettiva. E l’evocazione dell’illustre titolo del 1962 non è casuale. Se il personaggio della fioraia del Verano, fulcro portante su cui si articolano i vari snodi narrativi della vicenda, viene solo iconograficamente ricondotto alla Monica Vitti del Dramma della gelosia, la connotata romanità di Anna Magnani è tenuta in vita sul proscenio dall’interpretazione calibrata e sensibile di Marianna Menga nei panni della Sora Iole, creando un carattere popolare e popolano capace di inglobare, senza ricorrere ad artifici imitativi o ripieghi marcatamente dialettali, la vasta filiera delle eroine della Resistenza trasposte sul grande schermo dalla diva cinematografica: la Pina di Roma città aperta, ovviamente, ma anche quelle tipizzazioni dal forte animo materno, tra tutte L’onorevole Angelina e Bellissima.

Si arriva così alla questione infantile, tanto cara al cinema di De Sica, inquadrata tramite due focus distinti: da un lato la giovinezza diversa, emarginata, vagabonda propria degli Sciuscià è tenuta a battesimo da quella che in epoche precedenti sarebbe stata definita come “la pazza di quartiere”, Angeletta, posta in essere dalla performance travolgente di Federica Bianconi; dall’altro il personaggio di Firmina, figlia di Iole, portatrice di quella fanciullezza apolide e distaccata – qui impersonificata da Mariachiara Di Mitri, che letteralmente “ruba la scena” nel secondo atto – che nel 1943, non casualmente l’anno in cui è ambientata questa coinvolgente epopea di borgata, era stata affrescata magistralmente da una pellicola che denunciava le derive familiari in relazione al soggetto puerile già dal suo paradigmatico titolo: I bambini ci guardano.

Rimandi alle favole metropolitane di De Sica e Zavattini – come non nominare in tale sede Ladri di biciclette – possono essere decodificati, inoltre, nelle costituenti maschili del cast, Ugo Caprarella nel ruolo del custode Umberto (D.?) e Lorenzo Mastrangeli in quello del Dottor Alvise, che con le loro efficaci prove attorali partecipano attivamente alla costruzione di una poetica del quotidiano in cui convivono proficuamente e armoniosamente, a vantaggio della visione unificatrice dell’esperienza bellica e della lotta partigiana, ricchi e poveri, ceti alti e bassi, borghesia e classe operaia all’insegna del fine comune della liberazione. Nelle maglie di questa fruttuosa tecnica della mescolanza sul piano dell’estrazione sociale, si segnalano, infine, anche le vivaci interpretazioni di Silvia Grassi (la matrona romana Assunta) e di Lorenza Molina (alias Franca), che forniscono entrambe un indispensabile memento alla produzione artistica contemporanea sull’importanza di rivalutare e rielaborare la funzione dell’attrice/attore caratterista che ha contraddistinto per decenni il patrimonio recitativo nazionale. Per ambedue, infatti, tante e tante considerazioni si potrebbero spendere su come le loro caratterizzazioni siano pervase dagli spiriti vitali di molte delle donne che hanno reso completo, variegato e dinamico il multiforme universo della commedia della Ricostruzione e del neorealismo rosa: Marisa Merlini (forse il riferimento più indicativo), Lea Padovani e giungendo poi, con notevole slancio di età, a Tina Pica.

Affinché questi discorsi non rimangano relegati a una dimensione banalmente suggestiva, è in conclusione fondamentale evidenziare come il lavoro di De Silva, esente da qualsivoglia apparato citazionistico, aderisca a canoni oggettivamente neorealistici, oltre l’ammirevole tributo ai caduti di guerra e alle vittime del nazi-fascismo, sotto il profilo pratico della realizzazione dell’allestimento: dall’uso genuino della tradizione dialettale, alla perizia immedesimativa dei costumi, fino ad arrivare alla scelta oculata del minimalismo scenico (nessun fondale, né arredamento, distoglie l’attenzione del pubblico dall’azione, in una logica di sottrazione paragonabile a quella che permette al cinema del Dopoguerra di distaccarsi, formalmente e concettualmente, dall’antecedente e anteriore cinematografia di regime, nota anche con l’epiteto dispregiativo di cinema dei telefoni bianchi).

Obiettivo principe della missione registica, nei suoi intenti preliminari e nei conseguenti risultati finali, sembra dunque essere quello di aderire alla norma della veridicità documentale, una dichiarazione d’intenti che è ideologicamente espressa dall’uso edotto della rimozione della quarta parete iniziale: la vita della nazione e la memoria collettiva siedono in platea a fianco dello spettatore e lo conducono per mano in un viaggio agrodolce all’interno della Storia italiana.

[Immagine di copertina: foto di scena di Michela Piccardi]



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