Viaggi nel tempo, esseri umani col dono della telecinesi, assassini con e senza sentimenti e “il cerchio” (per Loop, infatti, si intende una struttura ad anello). Questi sono i temi essenziali su cui verte Looper, l’ultimo film di Rian Jonhson.

In un futuro non molto lontano, il mondo è socialmente allo sfascio: la classe media è in sostanzialmente scomparsa, e il 10% della popolazione ha inutili capacità telecinetiche (riescono solo a far ruotare tra le mani una monetina). In questa desolazione, Joe Simmons (uno splendido Joseph Gordon-Levitt) si guadagna da vivere facendo l’assassino su commissione, un Looper. Persone dal futuro inviano le proprie vittime nel passato per farle eliminare su commissione. Un Looper, però, deve far conto anche del proprio cerchio e un giorno si troverà a dover uccidere il se stesso del futuro, pena la morte nel presente se l’incarico non viene portato a termine. Quando capita a Joe gli eventi precipitano e una minaccia apparentemente ben più pericolosa sembra incombere.

Non siamo dinanzi ad un capolavoro, e il film è in parte sopravvalutato, ma si lascia guardare volentieri. Johnson erige una pellicola intelligente (nonostante il basso budget) con una regia sobria e “classicheggiante” e una sceneggiatura pressoché coerente, se escludiamo qualche banalità sparsa qua e là, che finisce col chiudere (anch’essa) il proprio cerchio. I temi accennati sopra sono nient’altro che un pretesto, una molla che fa scattare l’azione, e che porta alla dualità alla base del film. Una dualità col proprio IO, verrebbe da dire. Joe è costretto a scontrarsi con se stesso (Bruce Willis) e difendere un bambino che non conosce, e l’identificazione in quest’ultimo piuttosto che col suo doppio, lo porterà a scoprire una parte di sé nascosta che lo pone dinanzi a una difficile scelta che lo potrà far redimere da una vita fatta di violenza ed egoismo.