Libri

#INDIaloghi – Intervista a Matteo Pioppi

Francesca Fichera

La seconda intervista di INDIaloghi è a Matteo Pioppi, direttore editoriale di Bébert Edizioni.

Dopo l’intervista a Pietro Del Vecchio, il ciclo di INDIaloghi si arricchisce di un’altra voce di quella parte del mondo dell’editoria lontana dal circuito mainstream: è Matteo Pioppi, direttore editoriale della piccola casa editrice bolognese Bébert.

 

Bébert Edizioni dichiara di essere “una casa editrice che fa dell’autonomia intellettuale la sua forza”: che cosa significa, teoricamente e praticamente?

Teoricamente che io non voglio essere schiavo di niente e di nessuno. Non voglio avere dei padroni che mi dettino la linea editoriale né tanto meno dei partiti politici. L’unica cosa che conta è saper ragionare con la propria testa, in modo critico, ovviamente avendo alle spalle le conoscenze necessarie per poter decifrare le contraddizioni in totale autonomia. La conoscenza approfondita della complessità è necessaria per non fare semplificazioni o approssimazioni.
Praticamente l’autonomia intellettuale consiste nel non avere barriere o pregiudizi verso i manoscritti che ci arrivano, ed è credere soprattutto nella bibliodiversità, che secondo me rende più liberi e acculturati tutti quanti.
Io credo molto nella forza della conoscenza, ma appunto perché ci credo ho visto che arriva al suo obbiettivo solo quando, nel generarla, si lavora in completa autonomia intellettuale.

Che cosa vuol dire essere un editore indipendente nel contesto attuale? Quanto costa l’indipendenza nel mondo dell’editoria?

Vuol dire vivere sempre  con molte difficoltà. Principalmente perché qualcuno ha deciso che a tutti i costi indipendente dev’essere equiparato al fatto di schifare i soldi, e questo ha innescato una spirale comportamentale estremamente errata, e cioè che il tuo lavoro non viene più pagato per quello che in realtà vale. Ma ok eh, io sono libertario, accetto tutti i punti di vista fino a quanto non limitano la mia libertà individuale, quindi adesso faccio di tutto per combatterlo.
Io praticamente lo detesto questo termine indipendente, lo rifiuto in modo totale. Mi piace più la definizione di piccola casa editrice.

In uno scenario simile, quanto conta adottare il giusto criterio di selezione degli esordienti (se ne esiste uno)?

Direi che conta tantissimo, anche perché altrimenti un esordiente è sempre costretto a pagare per pubblicare (in questo modo si abbassa anche la qualità proposta con tutte le conseguenze del caso). I manifesti editoriali di Bébert Edizioni sono molto rigidi e chiari, perché appunto per noi quello che tu chiami criterio è una cosa fondamentale per mantenere alta la qualità. Di base noi non pubblichiamo libri che parlano di cazzate o di cose inutili, di cose superficiali che fanno ridere perché dentro c’è chi scoreggia come nei film di Natale. Noi puntiamo su tutt’altro.
Anche per far ridere c’è modo e modo, il tragicomico è difficilissimo da trovare in questo paese di melodrammatici o di comici televisivi. Piano piano ho anche trovato due autrici, Ambra Porcedda e Lisa Biggi, che secondo me scrivono benissimo e fanno ridere parlando di aspetti drammatici con uno sguardo spietato e cinico che erano anni che lo cercavo uno sguardo del genere. Proprio perché tende ad essere molto iconoclasta e a desacralizzare tutti i comportamenti più diffusi in questa società. E a me piace molto questa cosa di mancare di rispetto in modo intelligente, caustico ed ironico.
Per quanto riguarda invece la saggistica, punto  molto sulla produzione universitaria, il più possibile generata con una metodologia scientifica e che sia in grado di far emergere storie dimenticate, aspetti sociali complessi e generalmente con un occhio molto vivo al mondo che stiamo vivendo.

Come si muove e a cosa punta Bébert in questo panorama?

Personalmente non punto a niente, semplicemente faccio delle cose: pubblico dei libri e scrivo. E quindi da queste azioni poi ne scaturiscono altre, come una reazione a catena, e le cose poi nascono da sole. Mi faccio molto portare dalle circostanze, perché è una bella navigazione. Inseguo poi sempre il momento creativo, che è quello più interessante, motivante e profondamente emozionate.
Per muovermi invece, ecco qui sì che c’è una strategia. Faccio molte presentazioni, lo chiedo a tutti gli autori: se il libro vuole essere venduto e socializzato bisogna fare molte presentazioni. Io metto tutti alla prova e poi guardo man mano come vanno le cose. E poi sì, di base presentare i libri ovunque: nelle librerie, nei centri sociali, nelle case private, nei bar, all’aperto, insomma ovunque. Solo in questo modo il libro prende vita e acquista una sua dimensione attiva e non meramente passiva.



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