Editoriali "Libri"

Dellamorte dellacritica, parte II

Francesca Fichera

“Non è vero che quando non si appare non si esiste” – Pierre Zaoui

 

Parliamoci chiaro: per fare il critico ci vuole coraggio. Il coraggio di pretendere molto da sé ancor prima che dagli altri. La voglia di perfezionarsi, di tenersi in allenamento, di star sempre lì a rifilare la punta da cui scorrerà il futuro inchiostro. La costanza di aggiornarsi, il rifiuto di dire “ok, è abbastanza”, la spinta a viaggiare in profondità e a ritornare in superficie soltanto per raccontare ciò che si è visto. O non visto.

Abbiamo già detto [qui] che, per la critica come per qualsiasi altra disciplina o “cosa” umana, il punto di partenza migliore è lo studio: studiare tanto, per tutta la vita. Chi imbocca tale strada dovrebbe innanzitutto accettare questo. Perché se è vero che ‘criticare’ è sinonimo di ‘discernere’, per poter parlare di differenze, per poter misurare le distanze, è necessario che vi siano elementi, punti, con cui stabilirle. C’è bisogno di materiale.

Così il critico di cinema dovrà guardare e capire tanti film, da quelli che hanno fatto la storia a quelli che non la faranno ma aiuteranno gli altri a cambiarla. E il critico letterario sarà costretto a consumarsi gli occhi sulle pagine, cartacee o digitali, delle decine di libri che leggerà. E così il critico teatrale, che affonderà le terga nelle poltroncine di velluto di miriadi di sale – presumibilmente, ci si augura, dopo averne almeno intravisto le antenate nei libri di storia – resistendo alla fatica.

Ho voglia di pensare che educarsi sia la soluzione, o una delle soluzioni possibili, a quell’analfabetismo funzionale di cui tanto si parla e si ha paura, frutto mostruoso di una scuola resa (volutamente) deforme che, insieme con la frenetica corsa all’apparenza determinata dal biocapitalismo imperante, negli ultimi anni ha provocato una letterale implosione dell’industria culturale.

Insomma, una categoria sempre mal vista come quella dei critici, che ora come ora risulta così estesa da rischiare l’indistinguibilità e poi la scomparsa, continuerà ad avere senso se e solo se chi sceglierà di farne parte conserverà la dignità di non parlare dell’ignoto. Di non scrivere di un film che non ha visto. Di non dire di un libro che è un capolavoro solo per fare un favore all’amico scrittore. Di non inaugurare progetti innovativi tutti uguali al solo scopo di metterli in curriculum.

Qualcuno la chiamava ‘onestà intellettuale’ – un concetto al momento più inviso e frainteso della ‘meritocrazia’ – ma forse è solo questione d’amore. E quello non ricerca l’approvazione altrui, né si esibisce. Al contrario, lotta per proporre sottovoce la sua porzione di verità. Come io proverò a fare.



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