Arti Performative

Emma Dante // Studio da Le Baccanti

Andrea Zangari

Le baccanti danzano sul Citerone a ritmo di pop music, in jeans strappati e con rossetti rosa shocking. Corpi giovanissimi dalla gestualità invasata, che si fanno segno dell’impossessamento divino. Così lo spettacolo diretto da Emma Dante è tornato, un anno dopo la prima messa in scena, quando era apparso come saggio di diploma degli allievi del corso di recitazione dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, al Teatro Argentina di Roma, dove sarà in scena fino al 5 gennaio. Un anno di decantazione che non ha estinto quello “studio” preposto ancora, in cartellone, al titolo della tragedia. Quasi un’excusatio non petita, laddove lo spettacolo appare un lavoro corale più che degno, esito di un processo ancora certamente formativo, ma indirizzato da una visione solida e chiara. E che proprio in quanto tale rivela un limite, per così dire, di eccessiva semplificazione concettuale. Un cimento comunque titanico, dagli esiti brillanti per una compagine così giovane, posta a confrontarsi coi valori di un testo che a distanza di più di duemila anni non esaurisce la sua polisemica forza provocatrice. E che qui viene adottato nella guizzante e modernissima traduzione di Edoardo Sanguineti.

Il pubblico entra in sala mentre sul palco le attrici siedono a gambe divaricate, spalle alla platea, vestite di quella pelle di cerbiatto che simboleggia la natura animale in lotta contro la ragione; ma, tanto per il testo euripideo e per la messinscena di Emma Dante, vale la pena premettere che ogni schematismo duale, pur spesso intentato dalla critica, sarebbe una mera rappresentazione mentale, un tradimento della potenza performativa del dramma. Non di mera opposizione tra apollineo e dionisiaco si tratta. Dioniso, dio dell’estasi, e Penteo, re di Tebe, non sono gli opposti, ma apparentati (sono, dopotutto, cugini di sangue) da una serie infinita di contaminazioni, riflessi che confondono ogni possibile atto di immedesimazione e di tracciamento di confini etici. Su queste ambiguità identitarie lavorano bene Emma Dante e i giovani attori (Viola Carinci, Irene Ciani, Gabriele Cicirello, Renato Civello, Jessica Cortini, Eugenia Faustini, Angelo Galdi, Alice Generali, Domenico Luca, Paolo Marconi, Eugenio Mastrandrea, Michele Ragno, Naike Anna Silipo e Anna Bisciari, Adele Cammarata, Ilaria Martinelli), che ibridano i personaggi riassorbendoli tutti, a turno, nel coro di baccanti che domina la scena. Quella dominanza, quindi, qui, e ancor più che nel testo, appare fortemente segnata dal sesso femminile: un esercito di donne folli è infatti l’arma letale a servizio di Dioniso per imporre alla città di Tebe il proprio riconoscimento. Ne troviamo didascalica ma efficace metafora nella scenografia: un drappo continuo di lucenti paillettes imporporate dall’impianto luci cinge lo spazio scenico come includendolo in un utero sanguinolento; il velo non solo racchiude, ma si denuncia superficie viva nell’interazione con gli attori che continuamente lo scuotono. Da esso si riflette una luce che sfuma dal rosso al rosa, colorando di sé ogni scena dell’opera: una nota di fondo che non è proprio quella del sangue, quanto una sua versione “glitterata”, elettrica, una spettacolarizzazione a uso cosmetico del fluido vitale che scorre a fiumi negli squartamenti della tragedia. 

Come nel teatro greco l’azione violenta non è mai rappresentata, ma riportata nelle vibranti tirate delle rhèsis, così Emma Dante dispone dei meccanismi di distanziamento dall’efferato, dei meccanismi finemente spettacolari e per lo più visivi. Ben inteso, anche il lavoro sulla musica e il canto è notevole ed efficace: sotto la guida di Serena Ganci i brani corali avvincono il testo con sonorità pop, innestate su un ritmo ipnotico che riporta al tema della manìa. Il tutto arricchito da provocanti passi coreografici che si rifanno all’infinità di videoclip in cui il corpo femminile s’offre in ondeggianti ammiccamenti. Ma il dato visivo resta in generale quello che più s’imprime nell’occhio dello spettatore, come se quell’utero fosse orizzonte invalicabile di senso. D’altro canto è vero che Le Baccanti è una tragedia del guardare. Inutile ripetere quanto il visibile sia al centro del pensiero greco che proprio negli anni di Euripide s’andava arricchendo degli apporti socratici. L’intera tragedia è innescata da un difetto di visione-comprensione: Penteo non riconosce in Dioniso la natura divina, così come Agave, sua madre, non riconobbe nell’amante della sorella Semele la presenza umanizzata di Zeus. È una stirpe, quella di Cadmo, poco incline a riconoscere il sacro. E che per questo suscita l’ira vindice di Dioniso che infuria le donne tebane, sospingendole sul Citerone a far compagnia alle baccanti asiatiche che al dio già s’accompagnavano. Dalla loro follia scaturiscono segni visibilissimi, appunto, atti a intimorire la città: latte e miele che\ sgorgano dalla roccia, una mandria di mucche squartate dalle menadi infuriate, fino allo smembramento finale di Penteo, per mano, fra le molte, della madre Agave, la quale per ironia divina non riconosce nel disgraziato il corpo del figlio. L’idea di affidarsi a un montaggio immaginifico per inscenare un dramma dell’immagine può sembrare pregnante; eppure, il linguaggio di questo studio sembra sfiorare la trama profonda del mito, senza gettarci nella vertigine del phobos, il terrore catartico. Le teste decapitate che, penzolanti dal ponte, aprono e chiudono la pièce, figurano più come giocattoli che oggetti osceni, didascalie di un terrore che è di per sé irrappresentabile, se non come ombra nel corpo. Siamo abituati al linguaggio di Emma Dante, che fa proprio del corpo il perno della rappresentazione: il corpo in quanto simbolo di contraddizione, perché crasi umano-divino. Eccellente presupposto per avvicinarsi ad una tragedia che racconta l’innominabile fascinazione per il numinoso, nel suo costitutivo assommare il magnifico e l’osceno. Dioniso è il perfetto innesco della contraddizione: egli si presenta come lo Straniero che giunge da Oriente, figura peregrina che ammalia e sconcerta le donne della città, e che induce in contraddizione anche Penteo, il quale si consegna alla sua truculenta fine spinto dal desiderio incestuoso di spiare le baccanti e i loro riti, consapevole che fra queste era la madre Agave. È questo Dioniso figlio di dio e figlio dell’uomo a suggerire l’accostamento con la religione cristiana impetrato nel ricorso ad una croce, rigorosamente fluo, che s’innalza a metà dello spettacolo? O il presentare Penteo con una veste simil sacerdotale, ma rosa shocking? Sia come sia, tale ricorso resta sospeso in un’episodicità che avrebbe forse richiesto un maggiore approfondimento. Né viene esplorata fino in fondo quella possibilità di abbrutimento prossemico che avvalorerebbe la dimensione sacrale e verticale del dramma entro quella convivenza di bellezza e oscenità che Dioniso incarna. L’orrore resta un fatto epidermico, indagato con gli occhi e le mani, poco col silenzio. Si può dire che, della tragedia greca, manca l’aulòs. In definitiva, resta l’impressione di un montaggio immaginifico fatto di fotogrammi efficaci nella loro singolarità, pur suffragati da un lavoro corale intenso e da una ricerca coreografica che gli allievi dimostrano di aver generosamente maturato, ma che lascia in qualche modo intoccata la corda interiore della magia e dello spaesamento, proprio per il sovraccarico di immagini. Come con uno schermo televisivo dal colore troppo intenso, viene voglia di rivedere lo spettacolo abbassando il valore cromatico, per cogliere meglio quei segnali invisibili sopraffatti dall’insieme. Con meno mezzi scenografici, forse. Critica, a voler essere pignoli, più indirizzabile alla direzione che non ad un gruppo di attori di sicuro talento e dall’espressività magmatica, che racconta in modo coinvolgente un processo pedagogico. 

 

STUDIO DA LE BACCANTI
di Euripide
traduzione Edoardo Sanguineti
regia Emma Dante

con Viola Carinci, Irene Ciani, Gabriele Cicirello, Renato Civello
Jessica Cortini, Eugenia Faustini, Angelo Galdi, Alice Generali
Domenico Luca, Paolo Marconi, Eugenio Mastrandrea, Michele Ragno, Naike Anna Silipo
e con le allieve del II° Anno: Anna Bisciari, Adele Cammarata, Ilaria Martinelli
scene Carmine Maringola
movimenti scenici Sandro Maria Campagna
musiche e arrangiamenti corali Serena Ganci
luci Cristian Zucaro
assistente alla regia Federico Gagliardi

produzione Compagnia dell’Accademia – Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico



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