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Intervista a Valerio Binasco. ‘Porcile’ di Pier Paolo Pasolini nelle sue parole

Gertrude Cestiè

Porcile di Pier Paolo Pasolini è in scena al Teatro Vascello fino al 28 febbraio. Abbiamo allora deciso di fare qualche domanda sullo spettacolo al regista Valerio Binasco.

Con la fisiologica paura di rivolgere all’artista le classiche domande che sicuramente gli vengono poste in questa occasione, su come sia venuto a formarsi questo trinomio Binasco-Pasolini-Porcile, affidiamo alla sua sincerità le risposte ai nostri quesiti.

A conclusione dell’intervista si ha la bella sensazione di aver parlato con un maestro non solo di teatro, ma di vita. La raffinatezza delle sue risposte ha il gusto del buono di chi ogni volta con umiltà accoglie l’altro in un confronto e lo rende partecipe del proprio mondo. «Sì, è vero ricevo sempre le stesse domande, ma stranamente ogni volta mi ritrovo a rispondere come se fosse la prima» – confessa. Con un grazie condiviso, ci si congeda nell’attesa di vedere lo spettacolo.

 

Tra i suoi lavori ci sono sempre i classici del teatro moderno e contemporaneo. Considera Pasolini un classico?

Sì, suo malgrado naturalmente. Credo che ormai sia diventato un tentativo di classico del teatro italiano. Lo considero classico perché lui si riferisce potentemente alla classicità del teatro. Vi si riferisce magari per negarla, per sporcarla, per irriderla, ma i suoi riferimenti non sono diversi da quelli del teatro classico. E Porcile più che mai. Se lo si sfronda, così come ho fatto dai temi apparentemente più visibili (satira, politica, denuncia) andando a cercare il nocciolo drammaturgico, troviamo un antico dramma familiare, esattamente come tutti i grandi classici.

Com’è stato il suo approccio con la scrittura di Pasolini? 

Molto istintivo, come faccio sempre. Tendo a mentire meno che posso. Un testo quando mi piace molto chiama la scena e chiama me per come mi è piaciuto, per come lho capito. Senza fingere di essere più intelligente di quello che sono né intelligente come Pasolini, ho preso ciò che di quel testo mi sembrava bello, emozionante, importante e teatralmente compatibile con i miei gusti. Ho dei doveri di uomo vivente che si rivolge ad altri viventi che mi spingono a portare in scena tutto ciò che mi risulta compatibile con la mia idea di teatro. Ho colto tutto ciò che in quel testo mi sembrava andasse in quella direzione, omettendo, attenuando, mettendo in secondo piano, tutti quegli aspetti che nel testo mi sembravano andare in una direzione opposta. Il risultato è stato fare un percorso credo molto diverso da quello che hanno fatto altri registi prima di me che invece, giustamente, hanno accolto la provocazione pasoliniana mettendo in scena la componente politica, satirica, grottesca e sperimentale.

Perché ha scelto di portare in scena proprio Porcile? 

Personalmente la scelta è caduta su Porcile perché mi è sembrato lunico testo pasoliniano che potesse accogliere in parte anche me, mentre il resto mi buttava fuori insieme al teatro che faccio io.

Ai tempi di Pasolini sarei stato definito probabilmente un regista della borghesia, un regista normale insomma, mentre lui aveva bisogno di qualcosa molto più dirompente di me e del mio gusto. Io trovo dirompente raccontare storie che siano umane, in quel periodo, invece, cera bisogno di raccontare storie diverse e di fare esperimenti che fossero culturalmente dirompenti. Di tutto il suo teatro, dunque, Porcile era quello che più mi accoglieva e mi permetteva di raccontare una storia senza soffermarmi troppo a guardare la forma con cui questa storia veniva raccontata.

C’è in Porcile un personaggio nel quale Lei si rivede?

Tendenzialmente mi viene naturale rivedermi in tutti. è successo uno strano fatto nella mia vita: sono invecchiato – ironizza il regista – ma quandero ragazzo io pensavo spesso che avrei voluto interpretare il ruolo di Julian. Erano gli anni quelli in cui ancora si poteva leggere Porcile da un punto di vista per così dire rivoluzionario. Invecchiando e diventando genitore personalmente ho dovuto rileggere lintera storia di Porcile dal punto di vista dei genitori: i quali sono sicuramente colpevoli di essere stati nazisti, ma in scena non li vedo mai compiere qualcosa di negativo. Mentre rileggevo Porcile quindi ho deciso che avrei voluto metterlo in scena perché ho avuto un moto di pietà e di immedesimazione nei confronti delle vittime di Julian (i genitori e Ida) e non ho più pensato a Julian come a una vittima.

Cosa vuol dire per Lei oggi, al di là delloccasione offerta dal quarantesimo anniversario della sua scomparsa, riportare a teatro un testo di Pasolini? 

Il nostro rapporto con Pasolini non è normale. Io ho cercato di trattarlo come un autore come tanti altri, perché altrimenti avrei subito troppo il fascino del suo fantasma, la potenza della sua denuncia, la sua forza profetica. Tutta la leggenda che lo ammanta, troppo vicina a noi, mi avrebbe fortemente sconsolato e io non posso lavorare in modo sconsolato. Oggi vale la pena secondo me riavvicinarsi a lui quantomeno per fargli il grande favore di toglierli di dosso il marmo della statua che gli è stata costruita attorno. Perché è ridicolo che un uomo rivoluzionario, libero e provocatorio come è stato, si riduca adesso a diventare la statua del Commendatore di Don Giovanni che ci ammonisce e ci intimidisce.

Io credo che Pasolini più che mai vada letto, riletto, interpretato e anche un po tradito, perché altrimenti per noi rischia di diventare una memoria troppo difficile da ricordare che rimane solo sullo sfondo, come uno slogan o come una logora maglietta di Che Guevara.



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