Libri

Dialoghi. Intervista a Giampiero Rigosi

Giorgia Tolfo

Dalla redazione della Nuova rivista letteraria, lo scrittore e sceneggiatore Giampiero Rigosi esprime il suo punto di vista sul rapporto fra la scrittura e gli altri media

In occasione della presentazione del nuovo volume di Nuova Rivista Letteraria, interamente dedicato al suo fondatore Stefano Tassinari  da poco scomparso, abbiamo chiesto ad uno dei membri della redazione, lo scrittore e sceneggiatore Giampiero Rigosi, di parlarci della rivista e di offrirci il suo punto di vista sul rapporto tra scrittura, informazione letteraria e televisione.

Cosa l’ha portata a collaborare con la Nuova Rivista Letteraria?

Prima di tutto la propulsiva e trascinante energia di Stefano Tassinari, e poi l’idea di lavorare assieme ad altri autori a un progetto che intende affrontare temi sociali, con la dovuta calma, non rimanendo obbligatoriamente agganciati alla stretta contemporaneità. 

Nuova Rivista Letteraria: una rivista di letteratura sociale. Lei è uno scrittore e uno sceneggiatore. Quale pensa che sia oggi, tra letteratura e televisione, il medium in grado di influenzare maggiormente la società?

Nei tempi brevi, la televisione è senz’altro il medium più efficace, soprattutto se ci si riferisce, appunto, alla capacità di influenzare. Ma sono convinto che la letteratura, là dove viene fruita, arrivi più in profondità, proprio perché non si propone di influenzare, ma di promuovere la riflessione, senza fornire risposte semplici.

E i tentativi di portare l’informazione e il dibattito letterario in televisione? Lei ci ha provato con Milonga Station assieme a Carlo Lucarelli e Simona Vinci, ce ne vuole parlare?

Non sono un esperto di televisione e, anzi, i miei rapporti con chi se ne occupa professionalmente sono sempre un po’ difficili. Io sono propenso a raccontare storie avvincenti, quindi non mi scandalizza affatto il tentativo di parlare di libri e di letteratura nel modo più accattivante possibile, però mentre realizzavamo Milonga Station mi sono reso conto che in televisione quel che attira di più è lo scontro, la provocazione, al limite anche il litigio. Ormai purtroppo la maggior parte dei talk show che propongono il confronto tra ospiti è basata su questa formula, e questo a mio parere ha diseducato gli spettatori alla riflessione e all’approfondimento.  In ogni caso io, Simona e Carlo non avevamo intenzione di entrare in competizione con questo tipo di programmi.

Credo che si possa parlare di libri (e di molte altre cose ritenute difficili o troppo complesse) in televisione, anche se senz’altro non è facile, forse soprattutto perché i tempi televisivi sono compressi, mentre la letteratura viaggia a una velocità diversa. Chi fa televisione di professione teme – anche comprensibilmente, per carità – che lo spettatore cambi canale, e quindi tenta in tutti i modi di tenerlo agganciato allo schermo, offrendo cose facili, quotidiane, spesso molto banali (e quindi fondamentalmente false), oppure la provocazione, la rissa, l’insulto. Insomma, ci si muove in un contesto poco entusiasmante… però credo che uno dei compiti della televisione pubblica sarebbe quello di realizzare e mandare in onda  programmi di approfondimento che non si propongano di fare subito grandi ascolti, avendo il coraggio di attendere la risposta di un pubblico che ha voglia di riflettere con più calma, con tempi più distesi, sulle questioni importanti che riguardano l’essere umano. Sono convinto che questo pubblico esista (e che sia anche molto più numeroso di ciò che credono i televisivi), ma che sia ormai disabituato a seguire la televisione, proprio perché non si sente in sintonia con le modalità di comunicazione e con i contenuti che gli vengono proposti. Quindi occorrerebbe investire sul futuro, sulla lunga distanza, per riconquistare questo pubblico, tentando anzi di allargarne il numero, senza mettere a confronto, come si fa ora, solo i dati di ascolto di una singola serata o tutt’al più di un breve ciclo di trasmissioni.  

In questi tempi di crisi economica, pensa che la narrazione (letteraria o cinematografica) rappresenti un rifugio o un’evasione?

La narrazione può rappresentare sempre entrambe le cose, e in alcuni casi eccezionali riesce perfino a farlo mirabilmente all’interno dello stesso racconto, che propone una storia avvincente, ma che allo stesso tempo affronta temi profondi in maniera non scontata. Poi, certo, in un momento in cui è difficile avere sogni a livello individuale, c’è il rischio che si tenda a evadere dalla realtà di tutti i giorni rifugiandosi in sogni proposti da altri, seguendo storie edulcorate narrate con tinte rassicuranti. 

Una domanda un po’ azzardata: preferisce scrivere storie per lo schermo o per la carta (anche se parlare di carta, di questi tempi, potrebbe apparire forse obsoleto)?

Premesso che mi auguro non diventi mai completamente obsoleto parlare di narrazione su carta, queste due modalità rappresentano per me approcci diversi, ma stimolanti. Quando scrivo per lo schermo, so che sto lavorando a un progetto collettivo di cui la mia scrittura – che scriva da solo o assieme a uno o più autori – non è che una parte del percorso che porterà alla realizzazione del film o della serie tv. Una sceneggiatura è sempre un testo provvisorio: delinea una storia che poi andrà realizzata da attori diretti da un regista, che deciderà la modalità di ripresa assieme a un direttore della fotografia, agli operatori e ai tecnici delle luci, che affiderà a degli scenografi la realizzazione delle scenografie, a dei musicisti la colonna sonora, e che infine monterà il film con il supporto di un montatore… Insomma, la scrittura che mi viene affidata non è che il primo passo di un lungo processo a cui collaboreranno molte persone. Mentre quando scrivo un romanzo, è come se mi ponessi direttamente di fronte al mio lettore ideale, senza alcun filtro: da una parte ci sono io che racconto la storia, dall’altro lui che la legge. Questo consente, volendo, di scavare molto più in profondità nel proprio animo e in quello dei personaggi che si inventano, così come di pendere decisioni personali nel taglio del racconto, senza il rischio che vengano poi fraintese o modificate. Sia la scrittura per lo schermo che quella per la carta sono stimolanti e, per come sono fatto, si integrano abbastanza: i film mi consentono di lavorare a contatto con altri, i romanzi invece sono un momento di solitudine.  



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