Arti Performative Dialoghi

Dario De Luca ovvero il teatro del disagio mentale dalla drammaturgia alla realtà

Renata Savo

In scena a Roma con Il Vangelo secondo Antonio, abbiamo intervistato Dario De Luca, attore, autore e co-direttore artistico della compagnia calabrese Scena Verticale

Dario De Luca e Saverio La Ruina sono i fondatori (1992) di Scena Verticale, formazione residente in Calabria tra le più conosciute a livello nazionale. Dal 2001 al duo si è aggiunto anche Settimio Pisano, il quale è sostegno fondamentale all’organizzazione dell’ampio spettro di attività condotte dalla compagnia: tra queste, da diciassette anni, a Castrovillari, il paese in cui Scena Verticale ha sede, si svolge il festival Primavera dei Teatri, un consolidato appuntamento con il teatro nel Meridione, una vetrina interessante e, più in generale, un momento di svago che ogni anno attira turisti, operatori e appassionati provenienti da tutta Italia.

Vincitori di numerosi premi (lo stesso festival, nel 2009, riceve il Premio speciale agli Ubu diretti da Franco Quadri), tra cui si segnalano il Premio Ubu nel 2010 come “Miglior testo italiano” per La Borto e il Premio Hystrio alla Drammaturgia nel 2010, Scena Verticale si è distinta nel corso degli anni anche per la sua capacità di avvicinare un target di spettatori assai diversificato.

Abbiamo voluto sentire Dario De Luca, in particolare, perché in questi giorni è in scena assieme a Matilde Piana e a Davide Fasano al Teatro dell’Orologio di Roma (11-13 novembre) con Il Vangelo secondo Antonio. La pièce, da lui composta, riflette sull’emergenza del morbo di Alzheimer, narrando la vicenda di un parroco di una piccola comunità che attraverso la malattia si trova a sperimentare un nuovo rapporto con la sua fede religiosa e a fare i conti, all’improvviso, con l’incrinarsi della relazione tra il proprio ruolo istituzionale – da sempre rispettato – e la società che lo circonda.

La tematica ha inevitabilmente portato per mano la nostra conversazione verso l’approfondimento di un altro argomento vivo nel dibattito critico attuale (e qui da noi affrontato diversi mesi fa in dialogo con Maria Federica Maestri di Lenz Fondazione), che riguarda il teatro e la gestione sociale del disagio psichico. Occupandosi da molto tempo di pedagogia teatrale, dalla fine del 1998 Dario ha seguito la scia di Enzo Toma – e del Teatro Opera Kismet di Bari – esperto sulla questione: forte del supporto e del confronto iniziali, tuttora conduce infatti a Castrovillari un laboratorio di teatro con allievi diversamente abili.

Curiosi di saperne di più al riguardo, nel tentativo di scoprire in che modo possono manifestarsi due anime apparentemente diverse di una stessa fucina, abbiamo così rivolto a Dario De Luca le nostre domande.

 

Le vicende di paese, nei vostri spettacoli, possono diventare materia di riflessione su temi universali, da maneggiare con ironia e delicatezza. Qui, per esempio, c’è il tema della fede, di cui ancora oggi parlarne in determinati contesti può essere anche molto rischioso. In che modo questo, insieme alla malattia, viene affrontato nello spettacolo?

L’Alzheimer è sicuramente una di quelle malattie che appartengono alla nostra società e di cui si parla poco e in maniera non approfondita. Entrando in questo tema mi sono accorto di quanto invece sia molto più intorno a noi di quanto non si immagini: è una malattia che viene anche vissuta con tanto pudore e in grande solitudine. Le famiglie che hanno a che fare con un malato di Alzheimer vivono la malattia con molta intimità, tendono a nasconderla. Poi, parlandone, ti accorgi che tutti hanno qualcuno, un parente, malato di Alzheimer. Da una parte, quindi, mi faceva piacere rompere questo squarcio di solitudine per le famiglie che hanno un malato affetto di Alzheimer e dall’altro usare il teatro per farlo diventare anche una cosa sulla quale vale la pena invece ragionare e provare a creare delle comunità, artisticamente parlando, di Alzheimer friendly, una società più preparata e disponibile ad accogliere questa malattia e questo tipo di malati…

Per questo, insomma, hai scelto una figura pubblica come quella di un parroco…

Esatto. E anche perché mi faceva piacere provare non solo a raccontare la malattia, un excursus del morbo, ma anche fare uno slittamento in avanti e, a quel punto, ho pensato che uno slittamento poetico potesse coincidere con questa figura di prete che ha dei punti fermi profondi radicati nella sua fede; che con la malattia vengono meno anche quelli o comunque cambiano di prospettiva. La sua fede e il suo senso religioso vengono intaccati anche loro dalla malattia, ma acquistano una nuova modalità di espressione: il rapporto con Cristo cambia perché la malattia sopravanza, ma diventa una cosa che potrebbe portare il pubblico a riflettere – almeno spero – su quanto delle sacche di amore profondo rimangono non dico “intatte”, ma si riescano a rinnovare persino in una mente obnubilata. 

Da diversi anni la tua attenzione è rivolta anche al mondo giovanile e della disabilità con esperienze di didattica teatrale. Sono moltissime le compagnie che per necessità di questi tempi si affacciano al teatro d’interazione sociale (teatro con disagio psichico, con detenuti degli istituti di pena, con gli immigrati, con attori con esiti di coma). Molte di esse spesso realizzano delle vere e proprie produzioni assai efficaci dal punto di vista estetico, in cui quella che era la “necessità” primaria del teatro sociale viene, in un certo senso, offuscata. Qual è la tua formazione al riguardo, e poi la tua posizione all’interno della questione?

Questo percorso è nato un po’ per caso. C’erano delle persone di Castrovillari, l’assessore alle politiche sociali di allora (ti parlo di quasi vent’anni fa), che ci seguivano come compagnia. Avendo il Comune di Castrovillari un Centro Appoggio Diurno per le famiglie che hanno malati disabili vari, ci è stato chiesto di fare un laboratorio per loro. Noi facevamo già pedagogia teatrale, e io ho continuato a farla perché è una cosa che mi interessa fare e che con la compagnia continuiamo a fare, curata da me. Allora, naturalmente, non avevamo ancora gli strumenti e ci terrorizzava l’idea di dover lavorare con ragazzi disabili. Era il periodo a cavallo tra il ’98 e il ’99. Conoscevamo però Enzo Toma: lui lavorava al Teatro Opera Kismet con la disabilità (ora lo fa ancora, ma da freelance). Lo chiamammo e gli chiedemmo se poteva venire a fare un laboratorio in questo centro diurno con i ragazzi disabili, ma “anche” insieme a noi: cioè, «tutta la compagnia lavora con te per capire una strada da intraprendere e ipotizzare una metodologia. Tu ci visioni e ci dici se è una cosa che siamo in grado di fare». Conducemmo questo lungo laboratorio e lavorammo su Otello di Shakespeare.

Di quali tipi di disabilità gli allievi erano portatori?

Disabilità psichiche varie: sindrome di Down, microcefali, autismo. Tra l’altro continuano a essere i miei ragazzi, senza contare che qualcuno se n’è andato, qualcun altro è tornato, qualcun altro ancora, purtroppo, è deceduto… La problematica del lavorare con loro, in sostanza, è questa: io ho un gruppo in cui gli allievi hanno disabilità varie, non ho un gruppo portatore di sindrome di Down o un gruppo di disabili sulla sedia a rotelle; si tratta di disabilità psichiche completamente diverse con cui provo a relazionarmi con un metodo molto empirico, che mi consente di avere modalità diverse di approccio con loro. Enzo, alla fine del laboratorio curato assieme, ci disse che secondo lui avevamo una disponibilità naturale ad accogliere i disabili, aggiungendo: «però, se devo dirla tutta, la persona che secondo me potrebbe fare questa cosa è Dario». Da allora, dopo questo “battesimo”, mi feci coraggio e presi in mano il laboratorio, e così va avanti da sedici anni. Se è vero che il Centro Appoggio Diurno oggi non sostiene più i nostri laboratori; l’AFD – Associazione Famiglie Disabili composta dalle famiglie dei nostri allievi non ha voluto, tuttavia, perdere la possibilità di continuare l’esperienza, e per questo motivo ora sostiene economicamente il laboratorio che io conduco. Io però non sono un terapeuta, né mi pongo come terapeuta…

Da quali operatori sei affiancato?

Sono affiancato sia da psicopedagogisti sia da un gruppo che lavora all’AFD, perché molti di questi ragazzi hanno anche bisogno di fare degli esercizi o di avere dei massaggi particolari, assumere delle posture specifiche…

Io penso che noi facciamo anche delle cose molto belle e proviamo anche a farle girare, per quanto è possibile. Poi, sai, è una macchina non facile: io ho tra i cinque e i venti ragazzi: significa portare con sé almeno una persona per ogni ragazzo. Qualche familiare deve seguirli, e quindi ogni volta si crea una macchina organizzativa molto complessa e farraginosa. So, però, di essere per gli altri un “terapeuta” senza volerlo essere. Il mio approccio resta di tipo teatrale, artistico e poetico: ho sempre cercato di far capire – e il teatro in questo riesce assai bene – quanto può essere bella quella diversità quando diventa poetica senza dover scimmiottare un normodotato, ma portando, invece, tutta la differenza che loro si portano dietro, addosso. Su questa modalità io lavoro. Per questo io amo i loro tempi. Amo scoprirli e alle volte anche studiarli. Perché anche per il me-attore questa loro capacità di rendere importante ogni gesto che fanno è materia di studio. Mi rendo conto di quanto noi spesso facciamo gesti con molto automatismo, mentre loro ti fanno accorgere di quanto ogni gesto sia enorme e pieno di bellezza.

Io provo a tenere come primaria importanza la necessità, cioè la possibilità che io serva a loro in qualche modo. Cerco di dare loro una felicità, un modo diverso di stare nella società. Girando con lo spettacolo è vero che spezzo delle catene, delle forme di “muro” che le persone hanno, ma mi secca l’idea che siano loro a potermi servire. Cerco sempre di evitarlo. Naturalmente, uso i miei strumenti che sono quelli del teatro, della bellezza, ma io devo essere utile a loro, non il contrario. Lavoro in una comunità piccola, per cui già il fatto che uscendo dalle case i miei allievi sono riconosciuti in città è un fatto importante, anche se resta una cosa molto “local”. Se si riesce a dar loro un ritorno nazionale va anche bene, ma l’importante è che il proprio territorio si accorga di loro, e che loro stiano meglio nel proprio territorio.

In generale, pare che si parli poco della drammaturgia calabrese rispetto a quella napoletana o siciliana: in quanto operatore teatrale insieme a Saverio La Ruina, con cui sei fondatore e direttore artistico del festival Primavera dei Teatri, quale ritieni sia lo stato attuale degli artisti teatrali calabresi dal punto di vista creativo?

Secondo me è un periodo di grande crescita. Non che finora non ce ne siano stati, ma è un momento in cui c’è una consapevolezza che si può essere non solo degli artisti, attori, registi che fanno bene il loro mestiere, ma anche riuscire a conquistare un’identità, sia drammaturgica sia di sistema teatrale. È un periodo lungo in cui noi stiamo lavorando con altre compagnie proprio su questo concetto: che la Calabria possa essere riconoscibile anche come sistema teatrale e con varie anime. La compagnia Scena Verticale, minimamente, ha una riconoscibilità nazionale; ci sono, però, anche altre compagnie e artisti, e ci piacerebbe che si iniziasse a parlare di Calabria anche come luogo dove “si produce”, perché ci sono più realtà. Noi adesso siamo reduci da un Focus Calabria: abbiamo una residenza a Cosenza che si chiama Progetto More. In ottobre abbiamo invitato un osservatorio critico nazionale a vedere in tre giorni, a mo’ di festival, dieci realtà calabresi diverse. Abbiamo realizzato un luogo di confronto con le compagnie: dieci incontri mattutini con l’osservatorio critico, che ha iniziato a conoscere le compagnie e allo stesso tempo ha provato a dare consigli, a stimolare riflessioni. È stato un bellissimo momento di incontro e confronto nazionale, dove tutte le compagnie hanno partecipato. Si è creata, insomma, una bellissima empatia.

Io penso che questo periodo sia nato dieci-quindici anni fa: le compagnie calabresi lentamente hanno iniziato a uscire, a lavorare sui territori in un certo modo, a creare anche degli incontri, dei festival, oltre a crescere artisticamente e a confrontarsi di più. Secondo me, finora, il confronto col nazionale – un po’ per distanze geografiche, un po’ per pigrizia, un po’ a causa delle scarse possibilità di essere “appetitosi” per un operatore nazionale – ancora non avveniva, mentre adesso sì, comincia a esserci. Nel giro di – spero poco – cinque o sei anni potremmo avere un panorama teatrale calabrese molto più importante e presente.

E cosa puoi dirci, invece, degli spettatori? Se penso a Roma, che è una grande piazza ma con un piccolo pubblico, vorrei riuscire a stupirmi del contrario anche per ciò che riguarda le località calabresi.

Guarda, quello della provincia è sempre un pubblico strano, e “strano” per motivi diversi: un pubblico innamorato del personaggio televisivo, conosciuto, popolare. Ma ti porto l’esperienza di Primavera dei Teatri, festival che facciamo a Castrovillari da diciassette anni. Il nostro è veramente un pubblico fidelizzato e anche numericamente grosso. Siamo partiti nel 1999 che avevamo pochissime persone, facevamo spettacoli con quindici spettatori; adesso, invece, “cacciamo” via la gente, non riusciamo a far entrare tutti. E questo con tre-quattro spettacoli al giorno. Facciamo del turismo culturale, nel senso che ormai da diversi anni le persone in quei giorni prendono le ferie, oppure decidono di venire sul Pollino perché approfittano del festival e poi, magari, vanno a fare rafting nelle gole del Raganello… Per cui, dalla mia esperienza, io ti dico che c’è un pubblico curioso che si è abituato al contemporaneo e lo cerca.

Anche a Cosenza, il Teatro Morelli – dove si è realizzato il Progetto More – è un “teatrone” da settecento posti. Enorme, complesso, e poi anche Cosenza è una città difficile, con tanti avvenimenti. Noi, però, riusciamo ad avere un bellissimo pubblico che ci segue e lo fa con grande attenzione.

Certo, non riempiamo un teatro di settecento posti, però il nostro pubblico, di media di duecento-duecentocinquanta persone, c’è, ed è il pubblico di una stagione di teatro contemporaneo, per cui non ci sono i grandi nomi. Naturale che poi si cambi completamente registro se arriva un Vincenzo Salemme… ma è prevedibile; è normale che sia così e stupido voler competere con quel tipo di numeri.

Avere, invece, un pubblico che è sempre curioso, che ti cerca e a cui piace capire cosa avviene nell’ambito contemporaneo: questo mi sembra che inizi a essere molto più di una casualità.



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