Arti Performative Dialoghi

Aspettando il “Macbeth” di Lenz: esperienza estetica e gestione sociale della follia

Renata Savo

Il panorama teatrale contemporaneo italiano appare oggi più che mai movimentato da progetti artistici territoriali e/o sociali, che se da un lato hanno in sé il germe della necessità, dall’altro pongono in essere la questione dell’artisticità, cioè della considerazione in termini estetici delle esperienze performative che affondano le loro radici nel sociale.

Spesso – anche se in misura minore – si tratta di modalità operative di produzione artistica che sollevano domande di natura etica: se sia giusto o meno, politicamente corretto o meno, il coinvolgimento di individui con problematiche psico-sociali, relazionali, penali che ne è alla base. E, a uno sguardo superficiale, da questo punto di vista si potrebbe dire che all’aumentare dell’interesse estetico dell’opera con implicazioni sociali aumentino i “rumori” dal punto di vista dell’etica.

Tutto questo, in generale, sortisce l’effetto di mettere in crisi le tradizionali funzioni della critica, e soprattutto, della stampa non specializzata, tra atteggiamenti paternalistici o incomprensioni estetiche, con la conseguenza di dover ridefinire un terreno d’indagine attualmente in espansione, senza dubbio colmo di fascino (e non solo per un pubblico di addetti ai lavori), e quindi demandando agli studiosi e alla stessa critica il compito di aggiornare i loro strumenti in direzione di una maggiore “consapevolezza” del fenomeno, onde evitare di fraintenderne le finalità.

Lenz Fondazione, residente a Parma, fondata e diretta da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, in Italia rappresenta forse l’esempio più rilevante di come il teatro sociale o, se si preferisce, il “teatro sociale d’arte” – ma entrambe le definizioni, certamente poco aggiornate, non esauriscono la varietà e la moltitudine di aspetti caratterizzanti il trend – sia oggi l’espressione naturale di un nuovo teatro di ricerca, come evidenziato lo scorso 1 giugno su “gli STATI GENERALI” dal critico Andrea Porcheddu in un articolo sull’Accademia Arte della Diversità diretta da Antonio Viganò a Bolzano, dove si sostiene l’elevata probabilità di trovare il «senso del teatro» contemporaneo proprio «da queste parti», e cioè, provando a parafrasare, in un teatro che si nutre di realtà e nel coinvolgimento di non attori, performer disabili, detenuti, persone accomunate da stili di vita assai simili, ma comunque, in ogni caso, non provenienti dalle accademie o dalle scuole di teatro; anzi, spesso situati agli antipodi rispetto all’ambiente, proprio perché attraverso il teatro riescono poi a trovare una nuova ragion d’essere, e a recuperare – laddove è possibile – qualcosa che nella “vita reale” si sentiva di aver inesorabilmente perduto.

La domanda più comune è la seguente: dove finisce l’attività di “iterazione sociale” e dove comincia quella che, per esempio, Lenz chiama “trasduzione estetica”?

Ecco, proprio il caso di Lenz rappresenta un unicum all’interno di questo discorso. Oltre al dato comunque tipico di altri teatri-mondo, la compresenza di attori professionisti e non attori (si pensi alla Compagnia Pippo Delbono), la sua originalità consiste nel legare il lavoro di integrazione di elementi provenienti dalla realtà sociale a una drammaturgia classica, conferendogli una funzione narrativa, e soprattutto, nel sovrapporvi un’attenzione formale, una cura verso gli aspetti visuali della messa in scena, che genera un connubio senza paragoni in Italia.

In attesa di vedere nell’ambito della XXI edizione del Festival Natura Dèi Teatri il nuovo Macbeth shakespeariano, che debutterà il 26 giugno (e sarà in scena, ancora, il 29 e il 30 giugno, e dal 1 al 3 luglio) nella Sala Est del Lenz Teatro, abbiamo posto qualche domanda alla co-direttrice artistica Maria Federica Maestri su questa produzione, che vede la partecipazione, in video, degli ospiti degli ex Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), ora Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria), e che poggia sul tavolo delle questioni possibili, di cui sarebbe bello e proficuo parlare negli ambienti politici, quella della “gestione sociale della follia”.

 

La nuova esperienza, iniziata lo scorso anno, all’interno della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) di Mezzani ci ha posto e ci pone alcune questioni rilevanti di pratica e di estetica artistiche. Considerando questo nuovo intervento – sarebbe meglio chiamarlo “azione”, proprio nell’accezione novecentesca di azione artistica pura – come prolungamento e sviluppo dell’esperienza acquisita in alcuni decenni di lavoro con il gruppo storico della comunità terapeutico-riabilitativa di Pellegrino Parmense il nuovo habitat si presenta differente per alcuni aspetti istituzionali e organizzativi ma la questione “… a meno che la vita non sia il teatro” rimane tutta in campo, per alcuni aspetti anche più drammaturgicamente incisiva.

[Tratto da “L’HO FATTO IO IL FATTO – Una nota sul Macbeth di Francesco Pititto”]

 

Che cosa intende Lenz per “gestione sociale della follia” e quando se n’è incominciato a parlare relativamente al teatro?

La gestione sociale della follia si definisce in un complesso sistema di pratiche socio-sanitarie finalizzate alla riabilitazione e al reintegro nella comunità delle persone con disagio mentale. Ma lo sconfinamento dell’esperienza artistica di Lenz nei territori della psichiatria è la trasduzione estetica di due elementi fondamentali del pensiero etico di Franco Basaglia: la convinzione che la follia non sia una malattia ma una condizione di crisi vitale e un’irriducibile tensione alla trasformazione del reale.

Alla fine degli anni Novanta il teatro contemporaneo sente maturare in un processo naturale la necessità di fondersi con l’essere sociale in condizione di fragilità, vulnerabilità, debolezza, sofferenza, alla ricerca di una nuova resurrezione artistica. Condizione necessaria per un suo profondo rinnovamento è la riunificazione tra esperienza estetica e comunità vivente nel presente storico: il teatro concepito come uno spazio dinamico, in cui possono essere realizzate forme di sperimentazione artistiche e comunicative. Un teatro inteso come fisica dell’immaginazione, volumetria della creatività, chimica di corpi sociali, differenziati ed esaltati nella soggettività del proprio agire estetico.

 

Quali scelte e rinunce comporta a livello estetico, durante la fase di ideazione, lavorare con persone che hanno delle disabilità psichiche come gli ospiti del REMS?

L’aspetto che differenzia la nostra pratica di ricerca è il primato del disegno drammaturgico sulla nuclearità dell’improvvisazione relativa. Nella poetica di Lenz la forma degli esiti spettacolari è l’intreccio profondo tra la radice, il nucleo originario del testo e il suo svelamento attraverso la parola e il gesto dell’attore.

È un processo di lavoro che tende a costruire un ponte tra le visioni immaginifiche dell’irrazionale, potentissimo nei soggetti sensibili, e le azioni corporee e reali dell’esperienza teatrale.

La scelta del dispositivo drammatico è fondamentale per individuare la funzione estetica dell’atto artistico: le limitazioni determinate dalle restrizioni della libertà personale poste dal sistema giudiziario (la concessione dei permessi è di pertinenza dei giudici) rendono de facto ‘debole’ la presenza dell’attore inteso in senso tradizionale; ma è proprio questa condizione di realtà presagita, narrata, immaginata il dispositivo scenico che impianta il nostro Macbeth.

Nessuna volontà artistica può essere condizionata, nessuna scelta può essere depotenziata dalla ‘crisi’, ma al contrario l’enorme densità dell’atto irrimediabile del crimen sine voluntate – offre una visione contemporanea del Macbeth.

 

Quali sono stati in questo caso i criteri di selezione dei performer e, in generale, nel teatro che si preoccupa della gestione sociale della follia?

Da parte degli ospiti – coinvolti e autoselezionatisi in un percorso preliminare di  quattro mesi precedente all’avvio del progetto sul Macbeth –  c’è stata una grandissima disponibilità e generosità a misurarsi con un testo complesso, in una traduzione (curata da Francesco Pititto) che non fa concessioni, non banalizza e non facilita l’accesso ai molteplici significati dell’opera attraverso scorciatoie narrative. La traduzione elaborata dagli attori densifica il testo originale. Non si chiede all’attore di rivelare se stesso, ma di dare più potenza alle parole del testo attraverso l’interpretazione, la rilettura della propria parabola esistenziale. In quasi vent’anni di esperienza con persone sensibili ho constatato che la follia è spesso una condizione di superiorità e non di inferiorità psichica.

 

Che cosa resterà del testo in questo Macbeth?

Nel Macbeth sono presenti diversi nodi drammaturgici sullo stato psichico/fantastico/onirico dei protagonisti.

I volti dei nostri attori sensibili saranno il transfer visivo (sociale, emozionale) per gli spettatori del Macbeth e la questione della follia e delle visioni di Lady Macbeth – Sandra Soncini, attrice storica di Lenz – e del suo consorte sono diventati materia vivente, atto violento rimembrato e rielaborato, allucinazione rimessa a fuoco in un contesto drammaturgico e di rappresentazione dell’opera reinterpretata dalla nuova scrittura del compositore Andrea Azzali.

Sull’inesorabilità, inconsolabilità, decisione e irreparabilità delle proprie azioni sono state ricercate le linee interpretative, linguistiche e musicali di questa nuova opera di Lenz, attraverso gli indispensabili impulsi di chi, rinchiuso per decenni in carceri senza nemmeno la consolazione (o la tortura) del senso di colpa, ci ricorda senza finzione che la vita è davvero un’ombra che cammina e l’attore un povero idiota che fatica a raccontarci il niente.

 

Quali sono state le difficoltà di approccio rispetto al precedente lavoro su Amleto?

Il percorso è stato completamente diverso nella durata del processo creativo, nella fisica installativa e nella prossimità intersoggettiva. Per realizzare il nostro Hamlet abbiamo articolato il progetto di ricerca in tre studi preliminari e strutturato l’opera in installazioni monumentali di grande complessità spaziale fino ad arrivare nel 2012 al massimo compimento scenico negli spazi del Teatro Farnese e del Palazzo della Pilotta di Parma. L’ensemble dell’Hamlet – formato da nove attori ex lungo degenti psichici – lavorava con noi già da lungo tempo (dal 1999) e la consuetudine linguistica era già una pratica consolidata da molti anni di laboratorio.

 

Dopo Macbeth si sa già quale sarà il prossimo progetto in cantiere?

Dopo il Macbeth? La Divina Commedia. Inferno, Paradiso e Purgatorio.



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti