Concerti Musica

66/67

Carmen Navarra

La stagione teatrale del Teatro Menotti di Milano si apre con uno spettacolo che, a detta dei protagonisti stessi, Alessio Boni ed Omar Pedrini, assume la forma di un “concertato”. 66/67, andato in scena l’ 1, il 2 e il 3 Ottobre, è infatti uno spettacolo musicale dove si incontrano il talento attoriale di Alessio Boni (classe 1966) e quello del musicista Omar Pedrini (classe 1967), ex chitarrista dei Timoria. La loro amicizia si trasforma in una collaborazione artistica suggellata dalle rispettive date di nascita, espediente grazie al quale viene immediatamente evidenziato il loro scopo: riportare in vita i successi musicali che hanno rappresentato un punto di svolta nella vita stessa dei due artisti, accomunati anche dalle medesime origine lombarde, bergamasche quelle di Boni, bresciane quelle di Pedrini. Il repertorio, mediamente noto, spazia dai classici degli anni ’60 (Dylan, Lennon, Simon & Garfunkel), passa attraverso gli anni ’70 e ’80 (Reed, Marley, Pink Floyd, Bowie) e si conclude con gli ultimi REM, una insospettabile There Is A Light That Never Goes Out degli Smiths e il“masterpiece” degli Oasis, Wonderwall. La trovata di portare a teatro pezzi musicali verso cui tutti nutriamo una certa dose di affetto e che riconosciamo come portenti del nostro bagaglio culturale sembra funzionare poiché, oltre al ri-arrangiamento di Omar Pedrini (voce e chitarra), Carlo Poddighe (seconda voce, chitarra e tastiere), Larry Mancini (basso) e Stefano Malchiodi (batteria), c’è una lettura testuale ed intertestuale commossa, toccante ed emotivamente coinvolgente di Alessio Boni che di questo spettacolo è innegabilmente il protagonista. La forza delle parole di Everybody Hurts, un “inno” all’universalità della sofferenza che dovrebbe ispirare un principio di consequenziale solidarietà umana, si intreccia con l’irriverenza di Take A Walk on A Wild Side, che racconta la vicenda in parte autobiografica di Lou Reed, attraverso la dolorosa conquista delle libertà (anche sessuali) che rivendica in uno dei pezzi più noti dei Velvet Underground. Questo “viaggio” passa attraverso la delicatissima The Sound Of Silence di Simon&Garfunkel, la ballata che valse loro una fama incrollabile, manifesto di quella incomunicabilità di cui (forse) non si è mai smesso di parlare: “Persone che conversavano senza parlare, persone che udivano senza ascoltare, persone che scrivevano canti che quelle voci non avrebbero mai condiviso e nessuno osava disturbare il frastuono del silenzio”. Un altro momento di solenne riflessione viene regalato al pubblico con il ri-arrangiamento di Mother di John Lennon che il leader dei Beatles scrisse dopo la tragica scomparsa di sua madre, travolta da un poliziotto ubriaco. Il dolore raccontato, cantato e recitato trova la sua conclusione in un pezzo altrettanto memorabile, Heroes di David Bowie, scritta dal “Duca Bianco” dopo aver notato da una finestra degli Hansas Studios in cui registrava i suoi dischi, due amanti baciarsi vicino al Muro di Berlino. Nel finale emergono spazi di patriottismo melensamente efficace con Sole Spento, il primo pezzo che i Timoria lanciarono dopo l’allontanamento dalla band di Francesco Renga e la cui genesi viene raccontata dallo stesso Omar Pedrini (una lettera ricevuta da un carcerato) e Io non mi sento italiano di Giorgio Gaber, che conclude a mo’ di impudente cabaret una serata che ha regalato al pubblico due ore di sano intrattenimento.

 



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