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Un “Nuovo Vangelo” in difesa dei braccianti migranti: cronache di una Passione nel film di Milo Rau

Renata Savo

Da quando la pandemia ha travolto le nostre vite, l’asse dei problemi sociali si è improvvisamente spostato. Da un giorno all’altro, i media hanno ridotto in modo drastico lo spazio da dedicare a questioni che purtroppo non hanno mai smesso di essere delle ferite sanguinanti nel nostro presente. Violenze, soprusi, ingiustizie, sfruttamento. Anche se spesso ce ne dimentichiamo, il silenzio mediatico non coincide affatto con la fine di tutto questo.

Il 1° maggio in cui si celebrano in molti paesi del mondo i diritti dei lavoratori, il nostro pensiero va all’ultimo film di Milo Rau, Il Nuovo Vangelo (The New Gospel), film uscito in contemporanea dall’1 al 4 aprile attraverso il canale del NTGent (www.ntgent.be), condiviso anche dal Teatro di Roma, che ha più volte ospitato le opere del regista tra i più apprezzati d’Europa; l’ultima volta che lo aveva fatto era stato il 10 ottobre, poco tempo prima del DPCM del 25 ottobre, quando venne allestita un’assemblea politica sul palco del Teatro Argentina, proprio in occasione della penultima tappa del Nuovo Vangelo, intitolata La rivolta della dignità – Resurrezione, che ha dato origine a una campagna internazionale diventata un’ampia rete per supportare attraverso una raccolta fondi le iniziative coinvolte nel film. Una di queste è Le Case della Dignità, che ha già dato a decine di braccianti migranti in Sud Italia un lavoro regolare e un’abitazione.
Avevamo già notato come il teatro di Milo Rau fosse “all’origine della realtà”. Per il regista svizzero, infatti, indipendentemente dal linguaggio (cinema e teatro, in ogni caso, nelle sue opere non sono mai sconnessi), la realtà non solo si studia, si interpreta, si rielabora, persino si provoca.

È stato strano vedere Il Nuovo Vangelo di Milo Rau nel 2021. Niente Coronavirus, mascherine obbligatorie, distanziamento, “lockdown”, “DAD”, e tutto il lessico con cui abbiamo dovuto fare i conti da marzo 2020 in poi, essendo finite le riprese del film nell’ottobre 2019. I media hanno talmente bombardato la nostra società di informazioni, che queste sono andate ad accumularsi e a stratificarsi fino a sostituire la realtà stessa, generando un divario quasi incolmabile tra la vita di due anni fa e quella attuale. Proprio questa distanza, non tanto temporale quanto concettuale, procura allo spettatore di questo film un senso di spaesamento, una sorta di ingiustificata insoddisfazione.

L’uscita del film ha cavalcato l’onda della Pasqua, dal momento che il pretesto per parlare dello sfruttamento dei migranti è l’allestimento, a misura di città, della Passione biblica. Solo Milo Rau, amante del reenactment, poteva avere la sensibilità perfetta per immaginare una processione laica del venerdì santo – e la via crucis già di per sé è una rievocazione storica – che coinvolgesse una città intera. E non una città qualsiasi, ma Matera, location che, oltre a essere stata la Capitale Europea della Cultura 2019, per due volte si è vista trasformare sul grande schermo in Gerusalemme, la città che fa da sfondo agli episodi della vita di Gesù, prima con Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini e poi con La Passione di Cristo di Mel Gibson. Se del primo riprende l’espediente di far recitare non attori scelti proprio per le loro storie e caratteristiche sociali, e ne è un esempio lo spagnolo cittadino onorario di Matera Enrique Irazoqui (ai tempi del film di Pasolini, in cui interpretava il ruolo di protagonista, era un sindacalista diciannovenne impegnato nella lotta al regime franchista; è scomparso circa un anno dopo le riprese del film di Milo Rau, il 16 settembre 2020), del secondo prende in prestito l’attrice Maia Morgenstern, madre di Cristo in entrambe le opere. Lo sguardo di Milo Rau, essendo uno sguardo di tipo estetico e non filologico, è perciò legittimato a raccontare il presente attingendo a un passato che non vuole essere la somma di cronache o fonti dirette, bensì di altre forme mediali in qualche modo equivalenti, riproduzioni performative di quegli stessi eventi storici o biblici che diventano il pretesto per parlare del presente.

THE NEW GOSPEL l ©Fruitmarket_Langfilm_IIPM_Armin Smailovic

Protagonista de Il Nuovo Vangelo è infatti un gruppo di braccianti migranti del Sud Italia, nei panni di apostoli di Gesù. Vittime del caporalato, si vedono scioperare nel film come nella realtà, guidati dall’attivista camerunense Yvan Sagnet, che con questo film fa registrare il suo nome nella storia del cinema europeo per essere il primo Gesù nero. D’altra parte Sagnet, dieci anni fa, ha giocato davvero un ruolo determinante nella difesa dei più deboli, e in particolare dei diritti dei braccianti migranti, organizzando insieme con loro un primo grande sciopero a Nardò, dove lavorava raccogliendo pomodori. Quell’episodio fu la prima pietra su cui costruire una rete “No Cap”, trasformandosi nel 2017 in una vera e propria associazione internazionale per tutelare il lavoro dei migranti e fermare lo sfruttamento nei campi: il caporalato, infatti, ampiamente praticato ma fino ad allora poco conosciuto dall’opinione pubblica, in Italia, è stato dichiarato reato soltanto nel 2016.

THE NEW GOSPEL l ©Fruitmarket_Langfilm_IIPM_Armin Smailovic

Ma l’intreccio del Nuovo Vangelo di Milo Rau si può definire anche un racconto per immagini poetiche – con voce narrante e canzoni di Vinicio Capossela – del making of della rappresentazione sacra, di cui anche la cittadinanza di Matera diviene co-protagonista accanto ai migranti e rifugiati africani; mentre il ruolo di Ponzio Pilato viene affidato a Marcello Fonte (Miglior Attore al Festival di Cannes, nel 2018, per Dogman di Matteo Garrone), il Sindaco di Matera, ad esempio, ricopre il ruolo di Simone di Cirene, l’uomo che in tre dei quattro Vangeli si narra fosse stato obbligato ad aiutare Gesù a trasportare la croce nella salita del Golgota.

La cifra stilistica di Milo Rau anche qui, quindi, è inconfondibile. L’espediente delle prove che conducono alla realizzazione di un prodotto che costituisce solo la parte finale dell’opera, nei cui interstizi la realtà prorompe – qui con le proteste, il racconto delle condizioni di lavoro e di vita dei migranti, lo sgombero di uno dei più grandi campi di rifugiati del Sud Italia – era già centrale in The Repetition – Histoire(s) du Theatre (1), in cui tutto lo spettacolo era un articolato percorso di allestimento che portava alla riproduzione sul palco dell’assassinio a sfondo omofobo del giovane Ihsane Jarfi, avvenuto a Liegi nel 2012.

 

[Immagine di copertina: THE NEW GOSPEL ©Fruitmarket_Langfilm_IIPM_Armin Smailovic]



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