Cinema

Un secolo di #MarioBava: Un’eredità silenziosa

Pasquale Parisi

Dal 1914 al 2014: il centenario di Mario Bava festeggiato con una serie di focus / L’era post baviana, il segno di un’eredità nell’incantato cinema internazionale.

Volere ad ogni costo assegnare una paternità, un punto d’inizio, rischia spesso di essere un errore a priori. Correnti, generi e idee hanno confini liquidi, e per quanto ci si possa sforzare di confermare un pioniere o un incipit si verrebbe certamente smentiti da qualche scomodo precedente. E questa è, nel caso in questione, una gran fortuna. Se fosse invece più semplice assegnare termini simili, un personaggio come Mario Bava potrebbe trovarsi alla sorgente di un numero pericolosamente consistente di filoni: gli sarebbe bastato ammantare di volontà programmatica una serie di scelte per esserne eletto capostipite. Ma parliamo del regista pronto ad affermare che gli spettatori inglesi e francesi avessero apprezzato maggiormente rispetto a quelli italiani i suoi film perché «sono più fessi di noi», d’altra parte, sempre pronto a minimizzare i propri sforzi.

Se La ragazza che sapeva troppo (1963) è giustamente individuato come la genesi del giallo all’italiana, ad avere un riscontro più evidente è stata l’esacerbazione della formula raggiunta in Sei donne per l’assassino (1964), che con la decisa virata verso il thriller dispone una serie di ingredienti che daranno i natali alla grande stagione del genere, con la concretizzazione nei primi film di Dario Argento, all’inizio degli anni ‘70. L’opera di Bava segna gli stilemi fondamentali dell’assassino che cela la propria identità dietro una maschera, l’idea di bodycount, con le vittime eliminate in sequenza come voci da spuntare su di una lista, e perfino qualche estro cromatico e visivo (i colori arditi delle luci, gli zoom, l’insistenza su particolari come gli occhi e la lama dell’arma impiegata) che avrà grande fortuna in seguito.

In uno dei focus precedenti della serie abbiamo avuto modo di esaminare come l’estremizzazione della formula abbia segnato il definitivo contributo al filone slasher: Reazione a catena, diretto da Bava nel 1971 ha indubbiamente fornito linee guida fondamentali per l’evoluzione successiva del genere. Viene introdotto il gruppo di giovani riuniti in uno scenario isolato, con il chiaro intento di indulgere in alcool e sessualità (sappiamo come quest’ultimo tratto diverrà un leitmotiv, sorta di peccato che il carnefice di turno arriverà a purgare) e l’assassino misterioso destinato ad abbattere le vittime, una per volta, in maniera brutale e sanguinaria, oltre ai primi germi delle tematiche della follia e del paranormale. Sarà in particolare la saga di Venerdì 13 a prendere, agli albori degli anni ’80, grande ispirazione dall’opera di Bava, consacrando un sottogenere destinato a dare vita a un numero seriamente incalcolabile di iterazioni come a sancire l’operato di maestri quali Wes Craven e John Carpenter.

Continuando sulla strada dei semi gettati nel giusto solco, è il caso di citare uno dei casi dalla portata generalmente più sottovalutata, ovvero quello di Terrore nello spazio (1965). L’avventura sul pianeta dalla superficie di polenta ibrida l’incipit classico del viaggio spaziale tipico della fantascienza ai canoni propri dell’horror: il risultato propone un pianeta immerso nello spazio profondo, una squadra di viaggiatori, navi spaziali abbandonate e creature aliene inquietanti e pericolose. Nonostante le ispirazioni non siano mai state confermate, si tratta di un format che si rispecchierà chiaramente in quello di Alien, il film di Ridley Scott iniziatore di un filone estremamente fortunato.

Il caso di Cani Arrabbiati, infine, è forse ancora più sorprendente: il film, girato nel 1974, scontò il fallimento del produttore, restando inerte per molti anni, prima di essere montato e pubblicato molti anni dopo. Nel 1992 comparve in sala Le Iene, diretto da Quentin Tarantino: al di là del titolo assonante (Rabid Dogs il film di Bava all’estero, Reservoir Dogs quello di Tarantino) esiste una indubbia comunanza di elementi. In questo caso sono fattori fondanti la rapina finita male, il gruppo di criminali celati dietro nomignoli e vagamente psicopatici, l’azione contenuta in luoghi estremamente circoscritti, il recupero dell’idea di road movie associato a una rediviva atmosfera pulp. Come lo stesso Tarantino ha scherzosamente ammesso «Avrebbero potuto distribuirlo come Le Iene – Parte 2, e nessuno avrebbe avuto nulla da ridire».

Quelli citati sono solo i più evidenti e rilevanti dei casi: tanti altri potrebbero essere ricavati dalle citazioni esplicite del regista sanremese (compiute, tra gli altri, da Fellini, Lynch e Tim Burton) come dalla stima manifestata da tanti cineasti successivi (tra i quali Joe Dante, Martin Scorsese e John Landis): niente male per un personaggio tanto schivo e modesto, pronto a stigmatizzare ad ogni occasione il proprio lavoro eppure proprietario di un’eredità ramificata tanto profondamente nel cinema di genere successivo che diventa quasi impossibile seguirne le tracce.

I precedenti articoli della serie Un secolo di #MarioBava: La stagione degli esorcismi / Così imparano a fare i cattivi / La strada per il Far West / Un impermeabile per l’assassino / La maschera del gotico / Il peplum e la fotografia



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