Arti Performative Focus

“Testimonianze ricerca azioni”, una passione lunga un decennio: pensiero e metamorfosi della scena contemporanea

Renata Savo

Siamo tornati a Genova a distanza di qualche anno e abbiamo trovato una città trasformata, più briosa e multiculturale. Da dieci anni, qui, si tiene grazie a Teatro Akropolis uno dei festival più amati sulla nostra penisola, Testimonianze ricerca azioni, finalista al premio Rete Critica 2019 che la rete della critica online assegna dal 2010 al teatro italiano e che anche quest’anno si svolgerà a Padova tra domani e dopodomani, 6 e 7 dicembre.

 

Dieci anni di testimonianze, ricerca e azioni a Genova

Un decennio di Testimonianze ricerca azioni: il festival diretto da Clemente Tafuri e David Beronio ha messo radici e conservato la propria unicità, la profonda coerenza tra pratica e teoria della scena, alimentata da una passione ardente, l’attenzione verso le scienze sociali e filosofiche. Si legge nella prefazione al volume decimo del festival edito da AkropolisLibri: «[…] abbiamo sempre creduto che fosse indispensabile lasciare spazio alle testimonianze degli artisti e degli studiosi intorno ai problemi che si pongono all’origine di ogni opera d’arte, lasciare spazio alla ricerca, creando i luoghi e i tempi nei quali sia possibile raccontare lo sviluppo di un percorso, con i suoi vicoli ciechi, le sue frustrazioni, i suoi tempi morti». La ricerca scenica, mostrata dagli artisti al pubblico, viene tradotta in pagina scritta all’interno del volume edito anno per anno. Un sospiro, un momento di auto-riflessione condiviso. O, semplicemente, il fermo-immagine di un percorso in fieri.

Ci si accorge presto della profondità di sguardo dei due direttori artistici, nella misura in cui approcciano gli eventi del festival, un vero e proprio prendersi cura, di tutti gli aspetti. Lo abbiamo notato, ad esempio, giovedì 14 novembre, al Museo Biblioteca dell’Attore, durante la presentazione del libro Essere artista. Eleonora Duse e Yvette Guilbert: storia di un’amicizia (Editoria & Spettacolo 2018) di cui è autrice Silvia Mei, presente e in compagnia di David Beronio, Roberto Cuppone e la voce di Angela Zinno per le letture. «Ha il fuoco nella vita, pur partendo da una prospettiva storica e scientifica», commenta David. Così sembra, infatti, dal racconto dell’autrice, talmente appassionato che le due ore della presentazione sembrano essersi consumate in un batter di ciglia. Dalla penna di «una delle contemporaneiste più contemporaneiste che abbiamo in Italia» – per citare Cuppone – un libro sull’amicizia tra Yvette Guilbert, considerata “la Duse della canzone” e musa ispiratrice di molta pittura di Henri de Toulouse-Lautrec, ed Eleonora Duse. Una sorpresa, insomma. Era rimasto per molti anni chiuso nel cassetto dei sogni della studiosa, che oggi insegna al DAMS di Bologna, e dal cassetto è riemerso per la pubblicazione con una forza fuori dal tempo. Non mancando di citare alcuni aneddoti che hanno fatto della Duse una sorta di leggendaria figura del teatro italiano (come quello che sia venuta alla luce su un treno, o che si arrampicasse sui tetti per leggere sotto il bagliore naturale del cielo stellato), viene attraversato da una fitta corrispondenza, testimonianza di un legame profondo e una stima reciproca tra le due dive. D’altra parte, la presentazione ha avuto luogo in una cornice davvero eccezionale, il Museo Biblioteca dell’Attore: sullo sfondo, alle spalle dei relatori, in bella mostra gli oggetti appartenuti a Tommaso Salvini, uno dei “Grandi Attori” dell’Ottocento italiano, e il suo specchio davanti al quale esercitava le espressioni più consone a restituire la psicologia dei personaggi che interpretava. In un’altra sala di questo prezioso museo si possono visitare altri oggetti, arredi, documenti autografi, costumi originali di Adelaide Ristori, Ermete Zacconi, Lamberto Picasso, Sergio Tofano e Lilla Brignone, e consultare i molti volumi della biblioteca, specializzata su teatro drammatico e cinema, che «annovera ad oggi oltre 42.000 volumi e 1.000 riviste italiane e straniere. Possiede materiale museale e un Archivio, che conserva circa 72 mila autografi; 69 mila fotografie; 1.300 copioni; 4.000 tra bozzetti, figurini, caricature, disegni originali, manifesti, locandine; 62 mila ritagli stampa; 10.000 programmi di sala». Sempre al Museo dell’Attore che ha ospitato la presentazione del libro di Silvia Mei, il festival di Teatro Akropolis ha offerto la possibilità di partecipare ad alcuni workshop e seminari, come quello tenuto da Marco De Marinis, Per una politica della performance. Il teatro e la comunità a venire, che ha toccato temi fondamentali, non soltanto brucianti nell’ambiente dei teatranti, ma anche tra le forme di manifestazione contemporanea del corpo presente. Un incontro che è riuscito a spiegare come il teatro entri tra le fessure di un dibattito che dal 1967, anno di pubblicazione de La società dello spettacolodi Guy Debord, sottende politica, teatro e quelli che convenzionalmente – ed erroneamente, secondo De Marinis – definiamo “nuovi media”. Marco De Marinis, infatti, è in accordo con le teorie contemporanee che illustrano il passaggio dalla “società dello spettacolo” alla “società della performance” e riporta il discorso al teatro: «Il 1968 per il teatro è stato un turning point: dal teatro politico si è passati agli usi politici del teatro», spiega De Marinis, citando in questa sede il Terzo Teatro e il Living Theatre, perché soprattutto quest’ultimo agì in modo incisivo sul presente, con la determinazione tipica di un vero e proprio movimento politico che ha tentato di veicolare, traducendolo in performance, una visione del mondo utopistica e alternativa. Come non si può non pensare, per restare in tema di performance, ai flash mob, alle “Sardine” che manifestano in tutta Italia contro l’estrema destra del Paese: partire dal mondo virtuale per ritrovarsi fisicamente insieme, manifestando con lo spettacolo dell’unione dei corpi il dissenso.

 

Tra tradizione e innovazione

Testimonianze ricerca azioni ha dimostrato un’ampia offerta dal punto di vista della programmazione, venendo incontro a un pubblico differenziato. Tra quegli eventi che ci è dispiaciuto perdere, un’intera giornata dedicata alla danza butoh a Palazzo Ducale, organizzata in collaborazione con Palazzo Ducale – Fondazione per la Cultura e con il patrocinio del Consolato generale del Giappone a Milano e dell’Istituto giapponese di Cultura in Roma. Un’occasione di spettacolo e riflessione che ha messo a confronto i maestri che hanno lavorato a questa disciplina fin dalle sue origini. Così anche l’incontro che ha anticipato la giornata: Butoh. Il linguaggio del corpo nel teatro-danza giapponese tra tradizione e sperimentazione, in programma al CELSO – Istituto di Studi Orientali, con i danzatori giapponesi Tadashi Endo e Yumiko Yoshioka.

Un festival che senza mai abbandonare quel delicato equilibrio tra tradizione e innovazione ci ha consegnato attraverso performance assai diverse un’esaustiva fotografia della ricerca contemporanea nelle arti performative. Da Alessandra Cristiani a Massimiliano Civica, da Marco D’Agostin ad Andrea Cosentino, gli ospiti, passando attraverso Masque teatro, Città di Ebla, Lenz Fondazione, solo per citarne alcuni.

ESTI. Performance con ipovedenti e non vedenti, esito del laboratorio condotto da Paola Bianchi. Foto di Lorenz Crovetz

Corpo, città, energheia

Al nostro arrivo a Genova, percorrendo da Piazza Principe la multietnica via di Prè arriviamo in salita alla Casa Paganini, che fu dimora del violinista e compositore Niccolò, per una delle tre coproduzioni Pindoc del festival, ESTI. Performance con ipovedenti e non vedenti, esito del laboratorio condotto da Paola Bianchi, performer esperta di drammaturgia del corpo, ovvero di come la parola possa indicare la strada al movimento, anche in assenza della vista. La coreografia, intesa come scrittura del movimento nello spazio e nel tempo, ha una sua semiotica che l’avvicina al linguaggio verbale. Modificando la distribuzione dei corpi e della massa di ciascuno nell’etere, qui la parola fuori scena è “prescrittiva”, dialoga con lo spazio delimitato in superficie da una striscia di nastro adesivo che si percepisce al tatto sensibile delle performer. Ciò che accade è straordinario, e non perché straordinari siano i corpi che si mettono in gioco, ma perché straordinaria, precisa, rigorosa, è la cronologia in cui si manifestano le azioni, alcune di queste anche a canone, delle quattro performer. Straordinaria, ancora, la qualità del gesto, dell’accoglienza all’interno del campo magnetico della scena di altre forze centripete, di persone dal pubblico che, in virtù di un principio democratico di convivenza, sono invitate a chiudere gli occhi e ad abbandonarsi per incontrare l’altro, sentirlo prima attraverso il calore della prossimità, e poi attraverso l’epidermide.

Paola Bianchi in Energheia. Foto di Davide Colagiacomo

Se la delicatezza del processo e della restituzione del laboratorio comunica un approccio di tipo sensitivo, empatico, di tutt’altro calibro il lavoro della stessa Paola Bianchi andato in scena in prima assoluta, Energheia, un lavoro di cui sconsiglieremmo la visione a un pubblico dall’udito sensibile, per i volumi molto alti delle musiche, composte ed eseguite dal vivo da Fabrizio Modonese Palumbo. Se in ESTI la delicatezza e la dolcezza contraddistinguevano il gesto delle performer, qui le linee sono dure, disarmoniche. Non manca l’approccio analitico-scientifico: il corpo magro viene come radiografato, mostra attraverso il movimento le sue più sottili possibilità di snodo articolare. Una massa informe che si visualizza come mucchio di ossa ripiegato su se stesso, elastico, che da terra realizza un effetto sottilissimo di rimbalzo, vibrando con il suono violento e ostinato del tappeto sonoro. Il progetto è ambizioso: «primo dispositivo del progetto ELP, Energheia nasce da un’immersione emotiva negli archivi retinico-mnemonici di una quarantina di persone alle quali ho posto una domanda: quali sono le immagini pubbliche che si sono impresse nella tua retina e che anche dopo molto tempo continuano a essere vive nella tua memoria visiva? Immersi come siamo nel calderone delle immagini, caratteristica primaria di questo secolo, quei frammenti di accadimenti fermati su supporto analogico o digitale sono a tutti gli effetti pezzi di storia, un atlante mnemonico personale e condiviso». Il risultato è una performance per palati raffinati.

Luca Alberti in Memories of the Past. Foto di Marcello Telluri

Dalla Casa Paganini, dopo ESTI, abbiamo raggiunto la sede di Teatro Akropolis. Tra le varie proposte, quella di Aristide Rontini, che firma Giovane Notturno – Episodio I “Solitude“, prima tappa di un progetto multisciplinare sulle giovani generazioni di cui è interprete Miriam Cinieri, corpo vettore di sogni e timori in una notte che diventa spazio ritmico di luce e silenzi, musica e assenze, e l’autobiografico, intimo, ironico 120gr di Sara Pischedda, per noi rappresenta una piacevole scoperta il nome di Luca Alberti e la DEOS danse ensemble opera studio. Gioca in casa, perché vive a Genova ma ha origini anconetane, Luca Alberti, e lavora con enti lirici italiani e nei teatri d’opera di Lille, Wiesbaden e Tokyo. Il suo Memories of the Past concepito insieme ad Alessandra Elettra Badoino mescola la fluidità rapida delle arti marziali con la poesia della danza. Presenza statuaria, sguardo vitreo. Le rotazioni degli arti inferiori, coperti da ampi pantaloni, disegnano l’aria accompagnandosi a movimenti ampi delle braccia. Ciascuna frase di movimento comprende moltissimi micro-movimenti scanditi in modo chiaro, ma non didascalico. Il movimento per addentrarsi in ciò che resta del passato, intraducibile nelle sue infinite sfumature, rielabora attraverso la danza una una mediazione con il vissuto. Una sfida quasi impossibile, tormentata, con cui l’occhio che guarda empatizza solennemente.

Alla sera, in centro le luci danno linfa a una metropoli che sembra divisa in due metà: l’area portuense rappresenta il futuro, mentre all’interno si delimita un’antica repubblica, un tempo crocevia di scambi commerciali via mare e via terra.
Se volete sapere di più su che cosa significhi questa città nell’immaginario condiviso, tenete d’occhio la compagnia Città di Ebla, che proprio a Genova, insieme a Teatro Akropolis, ha tenuto una conferenza-spettacolo dal titolo Studio per Corpo centrale :: Genova, prima tappa di un progetto spettacolare coadiuvato da sociologi e esperti che debutterà nel 2020, e che, più di tentare la raccolta di materiali in questo primo approccio, ha gettato dei semi per riflettere sull’identità dei centri urbani, creando un’occasione utile e stimolante di confronto, soprattutto fuori dal teatro, tra gli artisti, incarnazione di uno sguardo esterno (ed estraneo) alla città, e i suoi spettatori-abitanti.



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