Arti Performative Focus

Terreni Creativi 2020: l’esperienza alienante del teatro per un nuovo modello sociale

Renata Savo

Con il ricordo davanti agli occhi del tempo che abbiamo vissuto durante il lockdown, l’andare a teatro quest’estate sembrava destinato a configurarsi non più come un’occasione di incontro, ma l’esperienza alienante e diversamente capace di proiettarci dentro un nuovo modello di società.

Dalla riapertura dei luoghi di spettacolo, ovvero dal 15 giugno, molte delle attività connesse alle arti performative che sono riuscite a ripartire hanno cercato di interpretare in senso ottimistico i limiti imposti dalle norme di sicurezza sanitaria. La risposta da parte dei direttori artistici – di concerto con ingegneri e responsabili sicurezza – alla necessità di contingentare gli ingressi e di mantenere il distanziamento sociale tra gli spettatori, ha in alcuni casi portato alla proposta di soluzioni creative di accesso allo spettacolo dal vivo. L’undicesima edizione del festival Terreni Creativi ad Albenga, in Liguria, che si è svolto nei primi due giorni di agosto in condizioni di estrema sicurezza sanitaria, rappresenta senza ombra di dubbio un caso emblematico: oseremmo dire, un vero e proprio case study che meriterebbe di essere citato fra i volumi di storia del teatro e dello spazio scenico che gli studiosi scriveranno su questo delicato momento.

Premesso che Terreni Creativi, organizzato da Kronoteatro (per approfondire, si legga l’intervista recentemente pubblicata), ha dovuto rinunciare a uno degli aspetti che lo distinguevano all’interno del ricco panorama festivaliero italiano, quello di programmare tra uno spettacolo e l’altro un momento di convivialità che permetteva il dialogo fra tutti i partecipanti al festival, ha lasciato intatta, invece, la sua peculiare caratteristica di presentare di spettacoli negli spazi delle aziende agricole del territorio. Location di questa edizione, il cortile dell’azienda BioVio, dove il festival ha rimodulato la sua offerta su due palcoscenici ai lati corti del perimetro rettangolare, come fossero le due porte di un campo di calcio, con il pubblico disposto nel mezzo, su sedie – naturalmente – ben distanziate. Tuttavia, diversamente da calciatori più o meno liberi di muoversi nello spazio in conformità – se è consentito l’utilizzo di questo parallelismo – ai propri ruoli di gioco, gli spettatori hanno dovuto scegliere un posto unico e invariabile per l’intera serata. Dopo il primo spettacolo, il pubblico è stato invitato infatti a ruotare la propria sedia di centottanta gradi per assistere allo spettacolo successivo, con la conseguenza che chi era in prima fila per la prima performance si è trovato nell’ultima per la seconda. Anche la musica dal vivo, programmata prima dei due eventi teatrali, e che ha visto gli artisti disposti su uno dei lati lunghi, ha previsto una fruizione insolita, con gli spettatori collocati in modo non frontale.

Prova in uno dei due luoghi deputati allo spettacolo. Foto di Luca Del Pia

Se l’obiettivo di limitare i contatti nel rispetto delle misure sul distanziamento sociale è stato pienamente raggiunto, questa disposizione sperimentale degli spettatori ha un po’ sofferto per quel che riguarda la sua funzionalità pratica, quella della visione. Uno dei due palchi era una pedana bassa, adatta a ospitare performance che esigevano una maggiore prossimità: noi che avevamo scelto di occupare dei posti da “centrocampista” – si consenta ancora questo parallelismo – per assicurarci una vista mediamente distante da entrambi i palchi deputati allo spettacolo, abbiamo fatto un po’ di fatica. In particolare, questo è accaduto con Porporaappunti d’azione coreografica di Simona Bertozzi, ed è proprio il caso di dirlo, se le note di sala citano in apertura il poeta e filosofo Henry David Thoreau: “Non importa quello che stai guardando, ma quello che riesci a vedere”. Che cosa siamo riusciti a vedere? Gli equilibri ricercati della fluida Simona Bertozzi, in bilico tra pensiero e azione, che catturano nell’inclinazione la dicotomia tra aria e terra, animalità e spiritualità, concretezza e astrazione. «Puntare al molteplice / chiedere accoglienza all’aria / limite e porosità […]», legge sui suoi appunti la performer, in un angolo dello spazio scenico: frammenti di immaginazione che costituiranno la base di una coreografia che sarà rimodulata, scomposta e ricomposta per altri cinque corpi danzanti, in una nuova creazione che debutterà in ottobre a TorinoDanza. Dopo l’intermezzo musicale del compositore e musicista Luigi Ranghino, apprezzato in Italia e all’estero, che ha accompagnato con note lievi al piano attingendo a un repertorio noto di musica pop e non solo, è stata la volta di Calcinculo, spettacolo di Babilonia Teatri (al link l’intervista pubblicata sulle nostre pagine), una giostra musicale simbolica e fortemente evocativa, metafora della caotica, eternamente afflitta e scontenta, vita contemporanea.

Valeria Raimondi in “Calcinculo” di Babilonia Teatri. Foto di Luca Del Pia

Nella tipica forma dello spettacolo-playlist, in cui si susseguono brani solisti cantati da Valeria Raimondi e quadri staccati in cui si alternano Raimondi ed Enrico Castellani con la complicità di Luca Scotton – la cui silente e magnetica presenza scenica costituisce un vero e proprio marchio di fabbrica dello stile della compagnia – Calcinculo, che ha debuttato nel 2018, risente, proprio come un tormentone estivo il cui successo è tanto grande quanto fulmineo, della stringente attualità che lo spettacolo ebbe al suo debutto. Il parallelismo musicale ci sta tutto. L’album esiste, si può ascoltare su Spotify (l’ascolto è assolutamente consigliato: chi scrive in questo momento sta ascoltando in loop il brano intitolato Salsa di soia!) e il suo stile, le melodie orecchiabili, ricordano le atmosfere e la creatività di Franco Battiato, di Pop X, The Giornalisti e Gianna Nannini. Il motivo della non fortissima risonanza dello spettacolo nel presente, invece, per noi sta nella forte relazione dei testi, riecheggianti a colpi di metafore e allitterazioni luoghi comuni della vita in provincia dell’italiano medio, con questioni inerenti alla politica italiana di qualche anno fa, e in particolare alla campagna anti-migratoria di Matteo Salvini, di certo non esauritasi, ma comunque non più in auge da un punto di vista mediatico. La scrittura drammaturgica di Enrico Castellani e Valeria Raimondi, tuttavia, trova anche delle spinte di attualità, e lo fa cavalcando il tema delle paure e delle contraddizioni dell’essere umano: elementi aderenti ed esplicitamente allusivi nei confronti della situazione di emergenza sanitaria contingente. Lo show di Castellani e Raimondi nel complesso è piacevole (merito soprattutto della colonna sonora, che solletica le aree corticali, verrebbe da dire, impropriamente: seducente), in cui l’esposizione divertita e trasognata della complessa realtà in cui siamo immersi, tradotta in modo sofisticato e ironico, resta cifra stilistica del duo. Altra riflessione a margine. Per essere ancora più incisivo oggi, il teatro pop rock punk di Babilonia Teatri dovrebbe forse cercare, per ritrovare la stessa carica esplosiva degli esordi, di evolversi e sconfinare di più nelle logiche mediatiche del cyber spazio, che in questi anni è diventato il luogo di costruzione dell’opinione pubblica e delle azioni di controllo delle masse per eccellenza, piuttosto che in quello sempre più debole della finzione televisiva.

Magical Faryds. Foto di Luca Del Pia

Il 2 agosto la serata è stata aperta e inframmezzata dai Magical Faryds, progetto parallelo del collettivo milanese Al Doum And The Faryds che ha proposto brani originali che fondono insieme musica ambient, soul, bass, jazz ed electronica, accompagnati da un efficace e moderato gioco di luci e colori. A seguire, Primitiva, creazione coreografica di Manfredi Perego, il cui moto rapido degli arti, a volte più fluido altre volte più scattoso, ha dato vita con la colonna sonora a una sinfonia visiva ispirata alle forme del regno animale. La performance realizza nella interessante combinazione tra corpo e spazialità il legame tra uomo e natura, l’origine degli impulsi umani, che si traduce nel ritorno a sensazioni immaginarie di una condizione preespressiva e preesistente, di una cellula o di un atomo inglobato da una materia incandescente e pronta a subire un passaggio di stato.

Francesco D’Amore e Luciana Maniaci. “Siede la terra” dei Maniaci D’Amore. Foto di Luca Del Pia

Al suo debutto, Siede la terra dei Maniaci d’Amore Francesco d’Amore e Luciana Maniaci. Anche in questo lavoro, come per i Babilonia Teatri, entra in gioco il tema della costruzione di verità attraverso la finzione. Qui sono legate a un paese provinciale e culturalmente retrogrado, di pura invenzione, ma il cui nome evoca un periferico e profondo Sud Italia, “Sciazzusazzu di Sopra”. C’è un che della ricerca documentaria pasoliniana di Comizi d’amore, in questo lavoro, quell’andare a illuminare il pericolo dell’ignoranza mostrando «come funziona la gente» in un’Italia chiamata in causa anche nella scelta dei colori dei costumi, il verde e il rosso, dei due attori, stagliati su uno sfondo bianco. La drammaturgia è una scrittura tagliente, fresca, briosa. Un dispositivo quasi perfetto. Una madre (Francesco D’Amore) vuole narrare al pubblico, con fare moraleggiante, episodi ingiuriosi che hanno visto protagonista la figlia e il paese tutto: un gioco meta-teatrale dal facile incipit che gradualmente, però, si sviluppa per accumulazione e climax ascendenti fino a consegnare al pubblico il caleidoscopico e paradossale ritratto di una comunità sbandata e falsamente predicatrice. Chapeau.

 

[Immagine di copertina: foto di Luca Del Pia]

 



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