Arti Performative

Short Theatre 10 | Danio Manfredini // Vocazione

Renata Savo

A Short Theatre 10 è arrivato “Vocazione” di Danio Manfredini, sulla problematicità dell’essere e fare l’attore, vista con gli occhi suoi e attraverso i grandi capolavori della letteratura drammatica. 


 

Siamo all’interno di un teatro. Noi, che stiamo a guardare, e l’attore, sul palcoscenico per mostrarci i segreti della sua arte. L’attore è Danio Manfredini, ma è anche l’altro, un altro attore: un signore un po’ anzianotto che dice di non calcare le scene da trent’anni e lì, in quel momento, aspetta di incontrare il direttore artistico che potrebbe cambiare la sua vita e fargli riprendere quel percorso prematuramente interrotto. L’occasione della sua vita per ritornare a vivere, nei panni di un altro. In dieci minuti del nostro tempo di spettatori trascorrono le ore di attesa per l’uomo. Nulla. Ormai è tardi, e di incontrare il direttore non se ne parla più. Sulla sua vita calerà per sempre il sipario.

Sin dai primi minuti, Danio Manfredini, la cui carriera rivela le tappe di un cammino molteplice nei suoi attraversamenti, ci rammenta che “fare teatro”, fare dell’arte teatrale un mestiere, comporta un interesse reale, simile a una vera e propria vocazione. Consiste nella disposizione al sacrificio, al compromesso. Nel sopportare spese, tempi particolari, e il peso di relazioni sociali, politiche da coltivare. E poi, certo, c’è anche l’aspetto artistico. Non è un caso se per spiegarla, questa vocazione, sulla scena seguano l’uno all’altro personaggi che proprio con la vocazione, nel senso comune di predisposizione e talento, non hanno nulla o quasi nulla a che vedere. I tipi umani (provenienti da Shakespeare, Checov, Thomas Bernhard, Fassbinder, Tennessee Williams) interpretati all’interno di questo spettacolo – finalmente giunto anche a Roma grazie a Short Theatre 10 – sono tutti più o meno attori in preda a crisi d’identità o che avvertono il peso di responsabilità che vanno oltre lo stare in scena.

E’, quindi, la problematicità dell’essere e fare l’attore che Manfredini porge allo spettatore seduto in poltrona.

Ma chi è lo spettatore? C’è, in fondo, la sottile consapevolezza che proprio l’attore, oggi, rappresenti loro, gli spettatori, in quella platea che diventa sempre più palcoscenico, colma di addetti ai lavori, registi, attori. Quell’approccio così autoreferenziale, se non fosse per la sorprendente capacità interpretativa di Danio Manfredini e del suo compagno di scena Vincenzo del Prete, di una sana autoironia, ma soprattutto di un linguaggio della scena che esibisce delicatezza, poesia visiva e sonora, e la silenziosa sacralità giocata sul campo semantico del divenire altro da sé, ci avrebbe portato ad affermare che non c’è null’altro da dire, allora, se non l’ammissione, come avviene verso la fine dello spettacolo tra il serio e il faceto, della futilità di quel mondo e della sua arte, che, in fondo, proprio come per i mestieri illuminati dalla vocazione, porta a escludere se stessi per gli altri. 

«A cosa serve fare gli spettacoli? A niente!». «A niente. E’ per questo che li faccio».


Dettagli

  • Titolo originale: Vocazione

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