Arti Performative Focus

ContaminAzioni romane tra talento e perizia

Renata Savo

La visione di due spettacoli visti al festival ContaminAzioni di recente ospitato dal Teatro dell’Orologio di Roma rende necessario ricordare il ruolo ancora fondamentale delle istituzioni accademiche nella formazione degli artisti teatrali

Ci pare di averlo capito da un po’, che l’Italia non è un Paese per giovani: ci si può formare quanto si vuole, far gavetta, inseguire un sogno, ma se si ha meno di trent’anni si resta agli occhi dei “grandi” sempre “piccini”; che l’Italia è un Paese dallo spirito postmoderno: se ci si attribuisce appellativi come “artista”, “critico”, “attore”, “regista”, si viene percepiti come tali e lo si diventerà in una misura o in un’altra. Guai, però, ad affermare che per fare una di queste cose nel frattempo “si studia” anche (per fare le suddette cose con serietà, e non importa se da uno o dieci anni): «Ah, sei un allievo» ergo «devi imparare». A chi non è mai capitato, in qualsiasi ambito? Partiamo quindi da qui. Perché questo è un pregiudizio che può – e soprattutto, deve – essere sfatato.

Il talento, la perizia, si formano proprio lì dove ci sono teoria e pratica coltivate su solide basi. Perché quando un attore o un regista dichiarano «Sto ancora studiando», la risposta non può essere che: fai bene, e non smettere mai. Perché c’è una bella differenza tra chi respira teatro e lo fa, e chi oltre a respirare l’odore delle tavole da palcoscenico riversa nella passione anche il sapere di una tecnica strutturata, acquisita tramite lo studio approfondito di manuali e ore ed ore di lezioni frontali.

Alle rassegne organizzate e rappresentate dai cosiddetti “allievi” si può trovare il miglior teatro di tutta Roma. Lode alle scuole prestigiose, alle accademie di teatro, e in particolare all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” che anche quest’anno, grazie all’impegno di giovani attori, drammaturghi, registi (e critici), ha permesso di realizzare la decima edizione del festival ContaminAzioni ospitata al Teatro dell’Orologio dal 26 settembre al primo ottobre, «progetto autogestito di liberi esperimenti teatrali» che ha visto il coinvolgimento anche di altri istituti, tra cui la collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia.

La sinergia tra i talenti e la freschezza dell’organizzazione hanno portato alla resa scenica di opere di breve durata ma di sopraffina bellezza, dentro le quali si sono riflesse appieno la consapevolezza, la sapienza, di costruzioni drammaturgiche potentissime.

In particolare, ci è stato possibile vedere due spettacoli, ben esemplificativi di quanto abbiamo appena detto: il primo è Audizione, per la drammaturgia di Chiara Arrigoni, unica interprete femminile accanto ad Andrea Ferrara e a Massimo Leone, e la regia di Francesco Toto.

In uno scantinato, illuminato solo da una fredda luce al neon, è ambientato il colloquio di lavoro motivazionale che porterà a compiere una scelta surreale e paradigmatica del potere autodistruttivo dell’edonismo dei nostri tempi; sostanza di un mondo che ha trovato la sua dimensione più rovinosa nel benessere economico, popolata da una classe aristocratica che, sguazzando in esso, ricerca nuovi stimoli alla felicità per sfuggire all’apatia, alla stanchezza del sentire quotidiano, di una piatta e mortifera esistenza. Unici requisiti richiesti ai candidati: essere portatori del virus dell’HIV, per un incarico dietro al quale si cela un’orgia dalle mefistofeliche ambizioni. Chi sarà assunto e potrà beneficiare dei 100.000 euro di salario? La donna, scaltra, determinata e ferita da un amore malato del suo grigio passato o un giovane padre che si dice disposto a tutto per amore del proprio figlio?

In trenta minuti di spettacolo, la pièce accumula tensione, colpi di scena, con precisione, ritmo, senso drammatico, senza trascurare il naturale manifestarsi di sprazzi di comicità. Un testo denso, sull’arrivismo e sul potere autodistruttivo della ricchezza, e che non si fa fatica a collegare a episodi di cronaca recentemente avvenuti.

L’altro spettacolo cui abbiamo assistito, con la regia del promettente Alessandro Businaro, è Un pezzo del naufragio, testo di Irene Gandolfi interpretato da Grazia Capraro: un monologo di quindici minuti in cui una donna, seduta a uno sgabello, cerca di superare come può la solitudine che l’accerchia, coltivando la speranza di una voce in ascolto, quella di un compagno che – forse? – non c’è più. Il testo è un’escalation di emozioni: si inizia da una minuzia, da un pretesto cercato attraverso un banalissimo oggetto dal quale si sollevano questioni al limite tra l’etico e il filosofico e il biologico. Capraro è un vulcano quiescente, pronta a “esplodere” insieme alla scena, semplice, essenziale, comunicante tuttavia, nel suo vuoto, il senso di oppressione di un corridoio senza via d’uscita.

I talenti, il Teatro, insomma, da qui sono passati e continueranno, com’è assai probabile, a passare. Ma non si fermano. Perché se tra qualche anno questo Paese vorrà riconoscere loro i giusti meriti, ne siamo certi: questi faranno molta strada.



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