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Dewey Dell: dieci anni tra danza e sperimentazione sonora. Intervista a Teodora Castellucci

Renata Savo

La giovane compagnia Dewey Dell formata da Teodora, Demetrio, Agata Castellucci e Eugenio Resta fisicamente sparsi tra Cesena (Eugenio e Agata), Berlino (Teodora) e Vilnius (Demetrio), è in scena con Marzo (2013) – 18 e 19 marzo, al Teatro Comandini di Cesena – in occasione di Puerilia – giornate di puericultura teatrale, format di spettacoli e laboratori curato da Chiara Guidi, Societas Raffaello Sanzio, dedicato all’infanzia e allo sguardo particolare (e ‘particolareggiato’) dei bambini sul mondo. Nato nel 2011, Puerilia guarda ai processi percettivi e narrativi dei più giovani, caratterizzandosi per la proposta di spettacoli nati per un pubblico adulto, alla cui visione il bambino partecipa guidato attraverso il ‘vissuto’ di una premessa teatrale.

Prossimamente anche al Teatro delle Passioni di Modena (4 e 5 maggio) con una nuova produzione, Sleep Technique. Una risposta alla caverna Chauvet Pont d’Arc, Ardèche, Francia, abbiamo sentito Dewey Dell e approfondito in un lungo e interessante colloquio con Teodora Castellucci, alcuni temi inerenti i due lavori, e, soprattutto, il rapporto della compagnia con l’infanzia e con la formazione. Infine, abbiamo chiesto a Teodora di consegnarci un bilancio di questi primi dieci anni di attività di Dewey Dell, nei quali, insieme ai fratelli e a Eugenio Resta, ha sperimentato una varietà di approcci e di punti di vista, creando coreografie di corpi, luci e suoni con metodi sempre nuovi, e aprendosi a collaborazioni esterne che rivitalizzano quel terreno già fertile della sua ricerca artistica.

Marzo è nato in collaborazione con il fumettista e artista visivo Yuichi Yokoyama e il regista teatrale Kuro Tanino: com’è avvenuto questo incontro?

Kuro Tanino è stato un occhio esterno, un aiuto regista. Con lui il lavoro è stato abbastanza limitato, abbiamo lavorato insieme soltanto per un paio di settimane; il suo contributo è stato utile soprattutto nei confronti della parola, che per noi era una cosa totalmente nuova, perché non avevamo mai usato la narrazione in generale, tantomeno le parole. Mentre con Kuro Tanino l’incontro è stato anche fisico, nel senso che con lui ci siamo anche visti, Yuichi Yokoyama non lo abbiamo mai visto, e tra l’altro è stato anche molto difficile ottenere il suo consenso per partecipare al nostro progetto: è un tipo molto particolare, per niente interessato al teatro, passa tutto il giorno a disegnare, non ha e-mail, non ha il computer, non ha il cellulare, e quindi anche solo per parlare con lui abbiamo dovuto chiedere a un’amica di prendere un treno e andarlo a trovare. Questa amica in comune gli ha raccontato la storia che avevamo scritto per lo spettacolo, mentre lui ne disegnava i caratteri, dopodiché ci ha inviato i disegni e vi abbiamo realizzato i costumi di Marzo nella maniera più fedele possibile. L’approccio con Yuichi è stato di base fantasmatico, non c’è mai stato un vero dialogo. Tra l’altro uno dei caratteri che noi avevamo scritto era la storia di una ragazza, e lui, così ci è stato detto, non aveva mai disegnato donne in vita sua… A parte questo, noi come compagnia amiamo molto i fumetti, in particolare è Demetrio che li adora; non semplicemente i manga giapponesi, ma le graphic novel della Coconino Press, per esempio. Da questo punto di vista Yuichi è stato da subito uno tra i nostri favoriti: i suoi personaggi sono sempre una via di mezzo tra qualcosa di estremamente antico e qualcosa di proiettato sul futuro, un ossimoro che sarebbe stato perfetto per la storia che volevamo trasformare in uno spettacolo.

Con lo spettacolo, ci sembra importante dirlo, non abbiamo mai voluto istituire una sorta di dialogo tra Oriente e Occidente: il fatto che entrambi gli artisti siano entrambi giapponesi è stato assolutamente casuale. Abbiamo scelto, invece, il regista Kuro Tanino perché quando abbiamo visto un suo lavoro siamo rimasti tutti a bocca aperta, lavora con la narrazione in un modo molto particolare: le sue narrazioni sono sempre molto “scure”, di solito legate alla psicologia, a temi anche abbastanza pesanti, però lo fa in un modo leggero; ci ha sempre colpito quella maniera in cui riusciva, attraverso le parole, a far sì che uno spettacolo per adulti potesse quasi essere per bambini. Da qui abbiamo capito che se un giorno avessimo voluto lavorare con le parole avremmo saputo chi chiamare. Lui e Yuichi, insomma, sono due persone che per ragioni diverse stimavamo, da parecchio tempo.

Marzo è lo spettacolo che inaugura gli appuntamenti di Puerilia. Non si parla tanto di teatro-ragazzi, spesso viene ignorato dalla critica e dai media, a parte quando – lo si sta vedendo in questi mesi – affronta temi delicati, come l’identità di genere. Lavori come Marzo scardinano il principio della separazione tra un pubblico adulto e uno infantile, ma lo fanno, come giustamente hai detto, non attraverso la proposta, agli adulti, di mondi e visioni a misura di bambino (come pure accade a volte con esiti entusiasmanti), bensì il contrario. Come ricordava anche Mario Bianchi in una nostra intervista, Peter Brook diceva che prima di portare in scena un suo spettacolo lo proponeva innanzitutto a un pubblico di bambini, e se lì era favorevolmente accolto, lo spettacolo era pronto. Che cosa significa, allora, questo ribaltamento del rapporto (che poi, forse, è solo apparente), per te e per chi programma il tuo lavoro all’interno di un format come Puerilia?

Per noi i bambini sono stati sempre un punto di riferimento, nella nostra opinione sono da considerare come persone: c’è una cultura infantile da “sopravvalutare”, nel senso che in un certo senso bisogna riattare il valore di questa cultura. I bambini non si interrogano mai davanti alle tragedie, invece si dovrebbe sempre considerare ciò che essi hanno da dire, anche nei momenti più difficili della vita. Anche per noi sono stati una specie di cartina tornasole quando avevamo dei dubbi su alcune strutture di spettacoli: nel senso che se si annoiavano allora c’era un problema. Devo dire, però, che in dieci anni di attività, questa pratica, questa attenzione, è anche cambiata: per esempio, il nostro ultimo lavoro ha una tematica che è molto complessa, per niente legata alla semplice immagine. Ovviamente è cambiato anche il modo di approcciarsi del bambino; lo sapevamo che si sarebbe annoiato, ma stavamo anche cercando “altro”. All’inizio la nostra pratica era molto legata all’estetica, alla visione. Lentamente, si sta spostando verso qualcosa di un po’ più concettuale, anche se nessuno dei nostri lavori è concettuale (ancora!). Al contrario, perciò, il passaggio di un lavoro nato per gli adulti da riportare a un pubblico di bambini è un processo molto divertente; ci siamo resi conto di quanto non ci fosse in effetti bisogno di cambiare lo spettacolo così tanto… anzi, a essere onesti, lo spettacolo non cambierà, ci saranno delle cose che cambieranno, come i volumi del suono, che di solito nei nostri spettacoli sono alti. Qui, per i bambini, saranno chiaramente da ridimensionare.

Ecco, parliamo del suono. Il lavoro di Dewey Dell si potrebbe dire che ruoti attorno all’idea di ‘corpo sonoro’: il suono è materico e il corpo un contenitore di suoni inaspettati. Come si delinea generalmente un percorso creativo da questo punto di vista?

Noi come regola ci siamo dati quella che non dobbiamo avere regole fisse, cerchiamo sempre di cambiare metodo di lavoro. Questo ci obbliga a creare qualcosa di completamente diverso e inaspettato per noi stessi in primis. Quindi, a volte può essere che nasce un movimento e Demetrio deve cercare il suono che possa farlo vivere o rivivere, a volte, al contrario, è un suono che nasce per primo, altre volte anche una luce; una luce che ha un certo tipo di movimento e capiamo che starebbe perfettamente con un certo tipo di movimento. Per esempio, in Marzo anche la scena ha un ruolo molto importante per la forma che ha e per le luci… più che altro, si tratta di componenti, principalmente tre (movimento, luci e musica), che si mischiano tra loro dando risultati sempre diversi. Tutti noi cerchiamo ogni volta quel metodo di lavoro che ci metta in crisi. Poco prima di debuttare con un nuovo lavoro, se ci sentiamo preoccupati è un buon segno: perché vuol dire che siamo in un terreno che non conosciamo; potrebbe essere facile, perché siamo fratelli, lavoriamo da tanto tempo e sappiamo proteggerci, sentirci al sicuro perché abbiamo capito, conosciuto delle formule che funzionano, e invece no, in qualche modo per noi ogni volta è sempre una scommessa, un rischio. Ci piace stare sempre un po’ con il fiato sospeso.

Se da un lato si parla poco di teatro-ragazzi, la “formazione” è uno dei grandi temi degli ultimi anni che riguardano in particolare i più giovani, e non solo. Come vi ponete nei suoi riguardi, proponete attività di formazione/continuate a formarvi a vostra volta?

È una domanda difficile, ma bella per questo! Noi non abbiamo studiato danza; è semplice cadere in una sorta di ripetizione del sé, riuscire a fare determinate cose e riproporle. Perciò è molto importante per noi, nella preparazione di un lavoro, ottenere nuove abilità. Nell’ultimo, per esempio, tutta la coreografia era concentrata sulla figura del “ponte”, la schiena inarcata all’indietro; molti danzatori che avevamo scelto non avevano questo tipo di scioltezza, e quindi ci siamo presi tutto il tempo per imparare a farlo. A volte le idee che si hanno non sono immediatamente realizzabili, perché ci vuole un tempo fisico, materiale, per poter raggiungere quella qualità di movimento. Questo sicuramente ci impone una continua formazione in questo senso. Devo dire anche che ultimamente abbiamo avuto un incontro a Bologna dove c’erano varie compagnie di teatro della regione, e stranamente si parlava di quali fossero i rispettivi maestri. Noi ci siamo resi conto un po’ forse per il fatto che siamo “figli di”, abbiamo molto meno la preoccupazione dell’avere un maestro che, al contrario, di nascondere questo maestro. Per tornare alla tua domanda, sul teatro-ragazzi, sarà che a Berlino, dove ora risiedo, proprio non esiste un pensiero di questo tipo, per i bambini, come neanche per la danza, però ho una mia idea al riguardo: per me è sbagliato pensare di offrire ai bambini una proposta di teatro che sia “semplice”; non sono stupidi, è un errore pensare che di solito l’infanzia vada di pari passo con la semplicità. Un errore che forse ci ha portato anche la televisione, nel senso che tutto diventa più semplice, più comprensibile, e invece no… Mi ricordo che in passato abbiamo fatto in alcuni lavori per l’infanzia: dopo ogni esperienza chiedevamo ai bambini di disegnare quello che avevano vissuto. Loro sono stati capaci di notare delle cose che noi non avevamo neanche considerato. In una scena, per esempio, siccome avevamo paura che una luce particolare non funzionasse, avevamo messo una pila di nascosto (ma proprio nascostissima!) per poter, nel caso, illuminare lo stesso un oggetto; e in alcuni disegni compariva questa pila, e noi ci chiedevamo «Ma com’è possibile?»; avrei fatto fatica io a vederla. Questo, per dire, l’attenzione totale che essi hanno.

State lavorando a una nuova produzione, Sleep Technique. Di cosa si tratta?

Se il titolo richiama cose che conciliano il sonno a chi ha difficoltà a rilassarsi e a dormire, in realtà il sottotitolo conduce da tutt’altra parte: “Una risposta alla caverna di Chauvet-Pont d’Arc in Ardèche, Francia”. La caverna Chauvet-Pont d’Arc è una caverna con dipinti preistorici, scoperta soltanto una ventina d’anni fa, ma i dipinti che ha all’interno sono i più antichi, hanno 36.000 anni; dico “i più antichi” perché sono di arte rappresentativa, mentre quella ornamentale invece raggiunge anche gli 80.000 anni fa, e si trova anche in Africa, in Israele, in Australia, per esempio. È stata una scoperta folgorante, noi ci eravamo assolutamente innamorati di questi disegni strepitosi. All’inizio il nostro approccio voleva cercare di capire se fosse stato possibile ricostruire i movimenti degli uomini primitivi che erano entrati e avevano dipinto questa caverna, perché avevamo sentito che sarebbe stato totalmente possibile ricostruire i passi e i movimenti che avevano fatto. Quindi abbiamo incontrato un’archeologa e abbiamo iniziato a studiare questi movimenti. Quando l’abbiamo incontrata, è nata l’intuizione che queste persone non si muovessero in modo diverso da noi, erano esattamente identiche a noi, e quindi l’idea di ritrovare un’archeologia del movimento si era un po’ indebolita. Allo stesso tempo, però, amavamo profondamente questa caverna e il nostro intento è stato quello di riportare le emozioni che questa caverna ci aveva espresso, in uno spettacolo. Questo era anche dovuto al fatto che l’archeologa ci aveva detto che quando si entra all’interno di questa caverna è talmente vivo il passato che in qualche modo si sente come se le persone che vi erano state fossero ancora lì in qualche modo, in una sorta di attesa. Noi da questa attesa abbiamo iniziato a domandarci se fosse possibile una “risposta”, come se questi disegni fossero stati lasciati per la posterità. E questo è stato il cuore del lavoro.

Dewey Dell è nata dieci anni fa, dalla decisione importante, precoce, anche un po’ “avventata”, di un gruppo di giovanissimi fratelli e figli d’arte, accanto a Eugenio Resta, di intraprendere un percorso professionale comune. Lavorare con dei parenti comporta a livello professionale e umano sempre dei rischi. Qual è il bilancio di questo primo decennio di lavoro?

Il fatto di avere iniziato così giovani è stato positivo, ma ha reso dall’altro lato molto più difficile altre cose, nel futuro. Siamo cresciuti insieme, adesso alcuni di noi si sono sposati, Eugenio sta per diventare padre, quindi i cambiamenti li abbiamo visti insieme e rendevano il gruppo “elastico”, libero di spostarsi. È sempre stato importante restare così aperti, perché se fossimo stati rigidi, al primo desiderio di andare a vivere in un posto che non fosse Cesena, avremmo detto «No». Se ci si irrigidisce nelle relazioni, nel lavoro, è peggio: bisogna avere sempre la possibilità di scegliere. Noi non ci siamo mai detti, anche rispetto al fatto di continuare a lavorare insieme: «Ok, ragazzi, questo è quello che facciamo nella vita, e dobbiamo farlo per sempre, dobbiamo funzionare così…». Ci rimettiamo in discussione e, per esempio, il fatto che Eugenio stia per diventare padre e non potrà esserci nei prossimi lavori noi non lo viviamo come un problema, ma come una possibilità di esplorare un nuovo metodo di lavoro senza di lui. La mobilità è stata sempre un fattore che io consiglierei proprio come “metodo”; nel senso che ha creato quella specie di solidità, per assurdo, e quindi in qualche modo direi che abbiamo funzionato tra di noi soprattutto per questo motivo. Noi siamo nati per caso, all’inizio era tutto come una specie di gioco: io avevo diciassette anni, mia sorella Agata quattordici. Quando abbiamo fatto il primo lavoro ci siamo detti «Bello. Ci piace!»; quando abbiamo fatto il secondo abbiamo detto «Ok, continuiamo…»; quando abbiamo fatto il terzo e il quarto ci siamo resi conto che stava diventando proprio un mestiere. È stato bello anche capire questa dinamica, che un percorso da un gioco può diventare una cosa seria, e da una cosa seria può diventare una cosa professionale. È stato tutto molto naturale, che andava avanti con l’andare avanti degli anni. Mi ricordo che all’inizio facevamo fatica persino a rispondere alle mail, andavamo ancora a scuola, non riuscivamo a essere presenti. Nei confronti della famiglia, proprio perché all’origine è stata una cosa spontanea, io mi ricordo che non c’ho pensato due volte: con i miei fratelli (e siamo sei) abbiamo sempre avuto un rapporto fantastico, è come se fossimo degli “amici”, non li vedo neanche come “fratelli”. Quando lavoriamo insieme non pensiamo al fatto che siamo fratelli, me ne dimentico completamente, c’è il lavoro che chiama, siamo tutti concentrati su una cosa, e si porta avanti un discorso comune. Si accetta il rischio comunque e sempre, anche il fatto che uno spettacolo possa essere un fallimento. Il nostro rapporto è sempre molto libero, non potremmo fare a meno di questa libertà. Penso che non sia un caso, se guardo agli ultimi lavori fatti da qui a qualche anno: hanno tutte collaborazioni esterne. Noi sentiamo, dopo dieci anni, che coinvolgere persone che non sono parte di una compagnia ci piace, ci porta nuovo ossigeno. Questo non vuol dire solo danzatori o attori, ma artisti con una loro storia e una loro visione con cui cerchiamo di sintonizzarci: da Kuro Tanina a Yuichi Yokoyama, a – come nell’ultimo Sleep Technique – il musicista Massimo Pupillo o all’archeologa stessa. La chiusura, invece, difficilmente porta a una ‘freschezza’.



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