Arti Performative

Compagnia Monstera – Leonce e Lena

Renata Savo

La compagnia Monstera trasforma “Leonce e Lena” in una “fiaba sulla necessità di essere e la convenienza di non essere”. Leonce come l’Amleto laforguiano è il personaggio che per non soccombere alla noia della vita di corte si trasforma nel regista artifex della scena.

Non possono esistere sogni senza fiaba e fiabe senza sogni. Dietro le quinte di una sala del Teatro Vascello, in uno spazio intimo, raccolto, aperto però alla “visionarietà” e alla condivisione di una messa in scena fiabesca e allo stesso tempo onirica, è andato in scena per Le vie dei festival Leonce e Lena – fiaba sulla necessità di essere e la convenienza di non essere, ispirato al Leonce e Lena di Georg Büchner, con spunti dall’Amleto di William Shakespeare.

Se già di per sé il testo di Büchner contiene figure decisamente shakespeariane, in particolare da As You Like It – il principe Leonce è una sorta di Jacques il malinconico, e dietro il personaggio del valletto Valerio è ravvisabile il buffone Touchstone – in questa curiosa trasposizione diretta da Nicola Russo, della compagnia Monstera, anche la situazione di Amleto sembra aderire perfettamente al testo buchneriano: Leonce soffre, come il principe di Danimarca, del peso di una responsabilità. Entrambi sono vittime di un “dover essere” che compromette la loro capacità di agire.

Restii a prendere una posizione, il nòcciolo del dramma è rappresentato dal dubbio in Amleto – se compiere o meno la vendetta dell’assassinio del padre – e in Leonce e Lena, dal rifiuto da parte del principe del destino che lo vorrebbe unito in matrimonio con una principessa sconosciuta di nome Lena, facendogli ereditare il trono e perdere la libertà di continuare a vivere nell’ozio. 

Gli spettatori assistono allo spettacolo a contatto stretto con l’azione, seduti sui quattro lati della scena, un quadrato delimitato da pareti rivestite da una pioggia di luccicanti fili argentati. Dagli angoli vediamo entrare ballando sotto fari di luce intermittente e colorata gli interpreti di questa pièce: un giovane con indosso una canotta che lascia visibili le braccia ricoperte di tatuaggi; una donna vestita da uomo il cui aspetto, la bassa statura, nonché le sue movenze nello spazio quadrato della rappresentazione, riecheggiano una scena ambientata nella “Red room” di lynchiana memoria. E ancora, un uomo grosso e grasso, il valletto/buffone Valerio, ha un aspetto icastico: guance paffute, naso piccolo, barba folta; dalle spalle cadono i capelli di due parrucche applicate sulle maniche del costume, a evidenziare la sua condizione di alterità. Infine, un’altra donna si unisce ai tre: il volto reso ignoto da due occhiali scuri, la veste leggera e trasparente tale da renderla un desiderio impalpabile ed effimero (come la Silfide romantica). E’ Lena, la donna di cui inconsapevolmente (o forse sarebbe meglio dire “inconsciamente”) Leonce s’innamora e con cui felice si “combinerà per combinazione”. Questa sala da ballo rappresenta il luogo dell’ozio, del tempo sospeso, del sogno, della mente di un giovane principe che cerca di sfuggire alla noia della vita di corte e al tormento del “dover essere”. Tutti i personaggi sembrano drogati dalla musica che imprime pressione sulla loro pelle. La sensazione, per gli spettatori che assistono immobili, è di essere obbligati a guardarli, di far parte dell’azione. 

Leonce con la sua mente oziosa dà vita a un mondo, al suo regno ideale: il teatro, lo spazio che si propone di istituire alla fine della rappresentazione. E’ questo che avviene poi sul palco nella regia perfettamente coerente di Nicola Russo, nel gioco sostenuto da attori altrettanto precisi (che si osservano da tutti i punti di vista, avendo il regista rinunciato alla visione frontale): Leonce, come Amleto, in particolare quello “decadente” di Jules Laforgue ripreso da Carmelo Bene (Nicola Russo si è palesemente ispirato a lui oltre che nella regia anche nella phoné), è il personaggio che per non soccombere allo spleen di un’esistenza vuota si trasforma in regista artifex della scena; così, il personaggio di Rosetta, Leonce/Amleto lo fa interpretare a Valerio, il buffone: l’unica figura legittimata ad assumere il ruolo di un altro, il quale, usando le parole messe in bocca alla donna da Büchner, chiede al principe: “Allora tu mi ami perché ti annoi?”; e questi, simbolicamente, risponde: “No, sono annoiato perché t’amo. Ma amo la mia noia quanto te. Siete una cosa sola.”


Dettagli

  • Titolo originale: Leonce e Lena - fiaba sulla necessità di essere e la convenienza di non essere

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