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A proposito di “Acqua di colonia”: se Calimero è più razzista di Topolino in Abissinia

Redazione

Fra i tanti “tesori” dell’ultima scrittura della coppia Frosini/Timpano, Acqua di colonia (Cue Press, 2016), affilatissima operazione di repêchage demistificatorio sull’eredità del colonialismo italiano in terra d’Africa, il più repellente (e insospettabile) è probabilmente quel Topolino appena sbarcato in Abissinia, efferatissimo e armato fino ai denti – con tanto di borraccia riempita di gas asfissiante – che in una canzonetta per bambini datata 1935 smania all’idea di menar le mani contro i negri d’Etiopia. «Appena vedo il Negus lo servo a dovere. Se è nero, lo faccio diventare bianco dallo spavento!», dichiara con voce stridula il topo in camicia nera ai suoi comandanti, poi rincarando la dose candidamente: «ho molta premura: ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farsi un paio di scarpe. A mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della sua Balilla. E a mio zio un vagone di pelli perché fa il guantaio. Me la vedrò da solo con quei cioccolatini!». Nella finzione scenica, il tremendo 78 giri si trasforma perfino in una vignetta animata, con i due autori-attori ridotti a poco più che silhouette del beniamino Disney – le orecchie da topo in testa, i guanti bianchi e le maschere antigas – contro il giallo allucinante delle esalazioni tossiche. Sciocchezze… minimizzano Elvira e Daniele nei panni degli italianetti moderni mentre rimbalzano da un cliché all’altro, da un’amnesia all’altra, «è roba vecchia, sì, mica possiamo rivangarla in eterno, cosa c’entra con noi?». Già. Cosa c’entrano con noi queste chincaglierie di cattivo gusto, questi relitti polverosi da propaganda di regime? Che ce ne facciamo dei selvaggi coi labbroni sui quaderni degli scolaretti fascisti o delle allegre cartoline disegnate da Enrico De Seta, in cui altri bravi soldatini impacchettavano con lo spago belle negre da spupazzare o si liberavano dei fastidiosi Bingo Bongo spruzzando loro addosso con la pompa dei gas?

A scuola abbiamo disimparato la storia – perfino quella edulcorata dei sussidiari – perché era troppo ingombrante, l’abbiamo nascosta dietro una fitta nebbia di oblio perché nell’era del villaggio globale non conveniva più ricordarla. Ma non ce ne siamo accorti: proprio le scorie dell’immaginario pregiudiziale di un tempo, il razzismo elementare inculcato dai fascisti sopra e sotto i banchi di scuola, hanno continuato, mutatis mutandis, ad agire nel presente senza soluzione di continuità. Basta accendere la tv per assistere al bombardamento mediatico contro i neri che stuprano, i neri che spacciano, i neri che ammazzano, i neri che sono troppi, i neri che “se ne tornassero a casa loro”, i neri che “già è tanto che li sopportiamo e non li facciamo affogare tutti”. Si parla di immigrati, migranti, rifugiati, islamici, maghrebini, terroristi, ma in fondo si parla sempre solo di neri. Perché questo è lo stereotipo dell’“altro” per antonomasia di cui si è nutrito il razzismo quotidiano, il seme del falso mito penetrato nella società attraverso la forza (in)volontaria dell’immagine ancor prima che della codificazione statale. Per rendere conto di ciò si pensi soltanto alla celebre invenzione pubblicitaria comparsa per la prima volta in un Carosello del 1963, quella di Calimero per il detersivo Ava. Il tenero pulcino viene sottoposto al lavaggio “salutare” dalla bionda olandesina, che gli rivela che lui non è nero ma soltanto sporco. Una volta sbiancato, Calimero può ricongiungersi alla madre che lo aveva rifiutato apostrofandolo con la frase ben nota: «Vattene via, piccolo sgorbio nero!». Gli elementi dominanti dell’immaginario igienico-razziale del fascismo sono ancora tutti qui. Ecco perché non conviene scandalizzarsi troppo quando, in Acqua di colonia, la lettura di alcuni temi scolastici, divisi tra schifo e simpatia, smaschera la verità dietro l’ipocrisia adulta del politically correct: «io a loro vorrei bene come se fossero con la pelle giusta» (Paola Tabet, Einaudi, 1997). La “pelle giusta” resta sempre la pelle bianca.

Valentina Crosetto

 

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Se c’è un filo rosso che tiene legati Dux in scatola, Risorgimento Pop e Aldo Morto a testi come Zombitudine e Acqua di colonia, è l’ossessione per l’alterità.

La scrittura dissacrante di Daniele Timpano ed Elvira Frosini affonda nel mare oscuro e ignoto del passato, nel tratteggio di personaggi storici diversamente esposti; rispetto alla consuetudine da manuale scolastico, essi diventano gli altri per antonomasia, cioè quelli che furono e non sono più, né tantomeno si possono interpellare: i morti. Mussolini, Mazzini, Garibaldi, Aldo Moro: i corpi dei protagonisti da cui la penna e la voce di Timpano entra ed esce, sono ridotti a feticci da cimitero della coscienza storica. La marea del tempo, e del teatro, che distanzia, capovolge, risucchia, trasforma la vita e l’essere molteplice nella superficie di una cartolina proveniente da una galassia lontana di nome “storiografia”, li travolge e li strappa, frantuma la loro immagine da santino in quella di uomini senza gloria: sfaccettati, irriconoscibili, pasticcioni e spaventosamente umani.

In Zombitudine, gli altri erano gli zombie: morti viventi in tutto e per tutto simili a noi, eppure “diversi”, come unico e “diverso” si sente l’italiano medio dalla massa, dal popolino che dichiara di disdegnare, ma di cui emula gli atteggiamenti tipicamente televisivi, che riprendono l'”opinionismo” dello scadente talk show di turno.

Ed ecco, allora, Acqua di colonia, piccolo gioiello di drammaturgia che parte dal senso di indifferenza e impotenza dell’uomo italiano davanti alla voragine del presente. Anche qui, la miccia che accende l’entusiasmo dei due attori è il ritrovarsi divisi tra essere e apparire, tra il riconoscimento dell’altro, il nero, e il suo rifiuto, tra la Storia e la sua negazione. “Il colonialismo non esiste”, ripetono più volte, mentre raccontano tra una canzonetta, una battuta e l’altra, quello che il colonialismo fu per quelle terre. Lo fanno a modo loro, alla presenza muta dell’altro che, seduto in scena, è evidente che di diverso dai due attori ha solo il colore della pelle, e che, se potesse parlare, comunicherebbe attraverso la stessa lingua e gli stessi gesti. Lo fanno con una superficialità voluta e ricercata, diretta ma raffinata, che prende di mira l’ignoranza e la saccenteria da social network. Lo fanno mescolando lo stereotipo al documento, Topolino a Pasolini, Faccetta nera a Indro Montanelli. E poi, ci sono dentro anche Daniele ed Elvira, che sono loro e che siamo noi: gli italiani signori della chiacchiera e del contraddittorio.

Renata Savo

 

«Siamo puliti, da tempo, ci siamo lavati le mani con l’acqua di colonia, profumiamo adesso, abbiamo fatto Expo 2015, possiamo ricominciare a testa alta e con spirito di buona volontà, basta che non ci invadano tutte le coste, basta che affoghino un po’ prima di arrivare da noi. […] Colonialismo, coloniale. Sono termini che non conosciamo nemmeno, io la parola post colonial l’ho sentita per la prima volta tre giorni fa, ma che cos’è? un aperitivo? un cocktail? E poi l’ha detto anche «l’Unità», il quotidiano fondato da Gramsci, la risorta «Unità», lo zombi della carcassa del «l’Unità», l’ha detto il 13 agosto del 2015, a lettere cubitali, in prima pagina, ve lo ricordate? Italiani brava gente. Ecco.». (p. 32)

 

 



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