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Memoria, crisi degli intellettuali, desiderio come forma politica: in arrivo il ‘Trittico dantesco’ diretto da Fabrizio Arcuri

Renata Savo

È una notizia che suona quasi incredibile, quella della riapertura dei teatri prevista a partire dal 26 aprile. Sarà perché le sale sono rimaste chiuse al pubblico per sei lunghi mesi, durante i quali il pubblico ha dovuto accontentarsi (ammesso che ce ne sia stata la voglia) di fruire gli spettacoli in streaming o, nei casi più fortunati, di partecipare a iniziative dal vivo prossime all’animazione teatrale. Sarà, ancora, che dall’esterno ci sembra un miracolo che mentre noi eravamo seduti sui nostri divani davanti agli schermi nel frattempo la produzione di spettacoli teatrali stava procedendo, con i suoi tempi e anche le sue difficoltà. Mentre moltissimi lavoratori, in qualsiasi settore, restavano congelati dentro un inverno dal tempo sospeso, c’è infatti chi è riuscito a scaldare i motori per la ripartenza. Tra questi, sicuramente spicca il Teatro Stabile del Veneto, che, sebbene non abbia mai bloccato la sua programmazione al pubblico grazie alla piattaforma “Backstage” presente sul sito, trasportandola in uno streaming di alta qualità, con spettacoli dal solido impianto drammaturgico che sposano il linguaggio cinematografico (vi consigliamo a tal proposito di vedere, esemplare per la sua freschezza, Le regole dell’adolescenza diretto da Lorenzo Maragoni), già guarda con fiducia al prossimo futuro, presentando dal vivo dal 5 al 22 maggio al Teatro Maddalene di Padova, la sua nuova e corposa produzione, Trittico dantesco, un’ambiziosa riscrittura delle tre Cantiche della Divina Commedia affidata a Fausto Paravidino, Letizia Russo e Fabrizio Sinisi, nomi tra i più importanti della drammaturgia italiana contemporanea. Omaggio a Dante Alighieri a settecento anni dalla morte, l’impresa diretta da Fabrizio Arcuri e arricchita dalle musiche originali di Giulio Ragno Favero si prefigura molto interessante per il taglio originale e contemporaneo che attraversa i tre spettacoli: “un inferno“, “un purgatorio” e “un paradiso“, che debutteranno rispettivamente il 5, il 12 e il 19 maggio. I lavori sono cominciati circa sei mesi fa e hanno avuto come punto di origine tre seminari di perfezionamento aperti a giovani drammaturghi provenienti dall’intera penisola, ai quali è stata offerta la possibilità di penetrare i significati e la struttura della Commedia. Interpreti sul palco, 8 attori della Compagnia Giovani del Teatro Stabile del Veneto, selezionati tra coloro che si sono diplomati negli ultimi anni all’Accademia Teatrale Carlo Goldoni.
In attesa del debutto, abbiamo chiesto al regista Fabrizio Arcuri di parlarcene.

 

Quali sono state le difficoltà incontrate per mettere su questo progetto, che sarebbe stato molto ambizioso anche al di là del periodo difficile che stiamo vivendo?

Ci sono delle difficoltà oggettive legate alla situazione e ai protocolli delle varie zone (arancioni, rosse, ecc.) che abbiamo attraversato in questi mesi di prove e delle difficoltà legate al senso e a quello che abbiamo: il desiderio di raccontare oggi durante tutto quello che sta succedendo. È impossibile non considerarlo o lasciarlo fuori dalla porta.
Lavorare in produzione nel bel mezzo di una pandemia significa scontrarsi con il problema dei negozi chiusi e del difficile reperimento dei materiali, fare acquisti online, attendere che i prodotti arrivino a destinazione, e poi c’è anche il fatto di spostarsi con un continuo monitoraggio della situazione sanitaria, effettuando tamponi ogni settantadue ore. Per il resto non ci sono stati grandi problemi, se non quelli che riguardano normalmente la realizzazione di un’opera ambiziosa come dici. È una difficoltà interessante anche quella di cercare di capire come incontrare di nuovo un pubblico e le sue aspettative.

“un paradiso”. Foto di Serena Pea

In qualche modo questo Trittico vuole mettere in relazione i valori della società dentro la quale siamo calati con quelli della società in cui viveva Dante. Nelle tue note di regia infatti si legge: «Riferirsi alla Commedia oggi significa in primo luogo individuare un contesto, un mondo di riferimento, che sia adeguato alla nostra vita e che abbia la stessa presenza e la stessa forza che la religione aveva nel testo del poeta. Ma significa anche individuare quali sono i motivi principali che muovono le persone e le nostre società». Quali sono questi «motivi principali che muovono le persone e le nostre società», secondo te?

L’opera dantesca è il pretesto per riflettere sui valori da cui siamo circondati, un punto di partenza da cui si dipana la scrittura di tre testi teatrali completamente nuovi e che saranno anche pubblicati.
Il progetto, nato ideativamente due anni fa, aveva già alla base la necessità di produrre dei testi che parlassero di noi a noi, oggi, che è un po’ sempre stato un mio cruccio anche quando era in voga un altro tipo di teatro. La Divina Commedia mi è apparsa funzionale perché è un’opera popolare e conosciuta da tutti, e in qualche maniera parla di una società ad una specifica comunità nel momento del suo massimo fulgore e sviluppo poco prima del suo tramonto. Mi è subito sembrato un contesto che ci somigliasse.
Viviamo in una società capitalistica, in cui è il capitalismo a muovere ogni cosa e a scollegarci da quelli che sono i nostri desideri più profondi e autentici. Come se l’economia fosse oggi in un certo senso la religione stessa, che era al centro, invece, della Convenzione del mondo in cui ha vissuto Dante e che si riflette nella Divina Commedia; ma il pensiero occidentale capitalista si sta evidentemente preparando al giro di boa, sta tramontando, anche se resta ancora la Convenzione entro cui ci muoviamo e attorno alla quale ruotiamo. L’economia senza dubbio detta le regole più della religione, anche se talvolta ci si maschera: tutti i desideri che nutriamo, spesso, sono il frutto di un indottrinamento, legato a dei motivi che sono intrinsecamente economici. Pensa anche solo a quante persone si ritrovano da adulte frustrate perché svolgono un lavoro che non gli piace, ma che hanno scelto soltanto perché gli consentiva di vivere una vita più agiata, potersi comprare una bella macchina, una casa più grande, ecc.…

“un paradiso”. Foto di Serena Pea

Il Trittico dantesco è stato firmato da tre illustri drammaturghi italiani, Fausto Paravidino, Letizia Russo e Fabrizio Sinisi. Un’impresa iniziata con un lavoro di composizione da loro curato, durato circa sei mesi e arricchito da tre seminari di perfezionamento aperti a giovani drammaturghi provenienti dall’intera penisola. Come descriveresti lo sguardo di ciascuno dei tre autori sull’universo dantesco? Come si riconosce, si distingue e si amalgama anche, secondo te, lo stile di ognuno di loro all’interno di questo progetto?

Fausto Paravidino è l’autore di “un inferno”. l’Inferno è la cantica più densa di immagini, che sono anche molto grottesche. In queste infatti il tragico si mescola al comico, la stessa lingua è volgare più terreno e carnale, tragica e comica come spesso è la scrittura di Paravidino. Nell’universo disegnato da Dante, soprattutto quello dell’Inferno, ci sono molte immagini che ricorrono anche nei nostri modi di dire e nel nostro linguaggio, senza che noi nemmeno che ne accorgiamo: ci sono moltissime espressioni che appartengono alla nostra lingua e vengono associate alla scrittura di Dante, e non sappiamo che al 90% derivano dall’Inferno.
La scrittura di Letizia Russo è quella più intimista. Trovo molto interessante e attuale il tema che lei ha trovato: la crisi degli intellettuali oggi, la cultura come strumento di potere e non come strumento di lotta “contro”, di cui per esempio fu espressione la figura dell’intellettuale pasoliniano. La cultura che serve al potere non ha senso. L’accidia, uno dei temi principali affrontati nella riscrittura di questa cantica, è il peccato degli intellettuali oggi. Il problema, però, è che questo essere “super partes”, spesso, non viene nemmeno più guardato come un peccato, bensì come una qualità. Chi non prende posizione finisce per avere la meglio, e questo non è un bene per la nostra società, anzi. Questo tema viene sottolineato attraverso l’incontro, nel XXI canto del Purgatorio, con il poeta Stazio, che permette a Dante di iniziare un lungo e complesso discorso intorno alla poesia e quindi sul valore della poesia e della cultura. Il ruolo dei poeti nella società è il un tema che in questa cantica occupa uno spazio via via sempre più importante. Qui si fa perno attorno al quale ruota il testo composto da Letizia per parlare, in sostanza, del fallimento degli intellettuali oggi.
Per quanto riguarda “un paradiso”, la cifra stilistica di Fabrizio Sinisi si riconosce soprattutto nel fatto che scrive in versi. Tutta questa parte è infatti quella più musicale e aderente allo stile della scrittura dantesca in questa cantica. In questa parte del trittico Sinisi rappresenta un “presente avanzato”: il paradiso è il luogo metaforico in cui può accedere soltanto chi se lo può permettere. Hai presente il film Snowpiercer del regista di Parasite, Bong Joon-ho? Il concetto è lo stesso. Nel film c’è un gruppo di sopravvissuti a una nuova era glaciale causata da esperimenti falliti per fermare il riscaldamento globale. Lo “snowpiercer” è il treno che tiene in salvo questi superstiti ed è suddiviso in classi sociali: i più poveri vivono nelle ultime carrozze, i più ricchi nei vagoni anteriori, e tutta una serie di condizioni differenti. Così è in qualche modo il paradiso descritto da Sinisi: uno spazio fisico classista. Qui lo stile diventa aulico e si discosta al massimo dal volgare dell’Inferno. Ci sono molti canti, cori, e così sarà anche questa parte, che potrebbe far associare lo spettacolo a un’opera musicale, con grande spazio alle musiche originali di Giulio Ragno Favero, che attraversano anche le altre due parti dello spettacolo, ma in modo diverso: in “un purgatorio” la musica non sarà dal vivo e anche lo spettacolo sarà più “fisico”, mentre nella prima parte la musica sarà dal vivo e ci saranno anche delle parti “danzate”. 

In una parte di questo Trittico, si legge, Dante è una donna. Chi ne interpreta il ruolo? Come mai questa scelta?

Dante è una donna, Federica Fresco (26 anni), solo nella prima parte. Mentre in un “un purgatorio” Dante non c’è e in “un paradiso” è interpretato da un uomo (Alberto Vecchiato). In “un inferno” Dante o meglio l’eroina di questo racconto decide di rileggere il proprio passato per cercare se stessa. La memoria, e quindi il modo in cui decidiamo di ricordare gli eventi del nostro passato, è parte integrante della nostra identità, ma può succedere che a un certo punto della nostra vita ci perdiamo e non sappiamo più chi siamo e cosa veramente desideriamo: si verifica uno scollamento tra la nostra interpretazione degli eventi e il significato reale di ciò che ci è accaduto. Questo viaggio nel passato che l’eroe fa per ritrovare se stesso ci sembrava più interessante che venisse compiuto da una donna, perché nella nostra società è la figura che subisce più ingiustizie e incontra più ostacoli, dal momento che viviamo in una società maschilista e patriarcale.

 

[Immagine di copertina: “un paradiso”, foto di Serena Pea]



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